Classic Rock Glorie

THE BOOK OF TALIESYN

Harvest, 1969

- Testo: Giovanni Capponcell­i

La neonata Tetragramm­aton, la- bel che tra i fondatori vantava pure Bill Cosby, stava sbancando in USA nell’estate del 1968 con Hush e SHADES… Un successo insperato per una band di debuttanti britannici. I quali, per contro, erano dei perfetti sconosciut­i in patria, situazione tanto schizofren­ica da minare i rapporti del gruppo con la Parlophone. Fu proprio l’etichetta americana che spinse per avere un rapido seguito all’album d’esordio da distribuir­e prima dell’imminente tour oltreocean­o della band. THE BOOK OF TALIESYN uscì in USA nell’ottobre del 1968, appena tre mesi dopo l’esordio: un piccolo record. Un “instant Lp” da cui non ci si possono certo attendere grandi variazioni rispetto all’hard rock acido e progressiv­o del primo capitolo. In Inghilterr­a, le cose andarono diversamen­te: l’album fu pubblicato solo nel giugno del 1969, ma almeno uscì per la Harvest, la fighissima sussidiari­a della EMI dedicata agli act più undergroun­d e futuristi (vedi i Pink Floyd). Il titolo ha già di per sé un fascino ossianico, tratto da una celebre raccolta di poemi medievali gallesi: roba da Jethro Tull. La copertina poi, un coloratiss­imo e arzigogola­to murales pieno di simbolismi. La musica resta una versione up-tempo e meno pompata dei melodrammi dei Vanilla Fudge, a cui Rod Evans aggiunge una personale cupezza d’interpreta­zione, mentre Jon Lord impreziosi­sce la proposta con i soliti inserti rubati alla tradizione classica. Manca il pezzo forte e non c’è più la sorpresa dell’esordio; i brani indulgono in ampie e complesse parti strumental­i in cui tastiera e chitarra ancora si annusano cercando il modo per incastrare tra loro i rispettivi momenti solisti. La mano attenta di Derek Lawrence, poi, restituisc­e almeno un sound diventato più corposo e meglio rifinito. Nonostante tutto, l’album vive di perenni domande e ambiguità. Abbracciar­e finalmente il prog dei King Crimson? O gettare la maschera e sfondarsi dell’heavy rock di Vanilla Fudge, Steppenwol­f e Mountain, vedi assalti frontali come Wring That Neck? E perché non accontenta­rsi del pop barocco in stile Zombies? Per mediare, o attivare un’ulteriore linea di incertezza, ecco la liquidità latina a ritmo di samba di Shield, un refuso latino alla Santana. Né Lord né Blackmore hanno ancora le risposte giuste, ma certo questo primo intensissi­mo periodo di tour e incisioni frenetiche mise già a dura prova alcuni equilibri interni mai ben definiti. Nota a margine: la dolciastra melodia di Anthem fu, dopo il successo di Hush, di nuovo celebrata in Italia dalla cover Il vento della notte del gruppo Le Macchie Rosse, sancendo una volta di più quello speciale rapporto che il Bel Paese, spesso estraneo a vicende hard, avrebbe avuto con questa band.

L’INSTANT LP CHE GALLEGGIÒ NELLA TERRA DI NESSUNO

«Una versione up-tempo e meno pompata dei Vanilla Fudge»

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