Classic Rock Glorie

È iniziato tutto così

Gli ex Paul Di’Anno e Dennis Stratton ripensano ai primi tempi degli Iron Maiden e all’omonimo disco d’esordio che cambiò il volto dell’heavy metal.

- Testo: Dave Ling

Oggi come oggi, gli Iron Maiden sono sei rockstar incredibil­mente affermate che, forti di un catalogo sterminato, viaggiano su un jet spesso pilotato dal loro cantante, e contendono a un gruppo americano, certi Metallica, il titolo di gruppo heavy metal più monumental­e al mondo. Quarant’anni fa le cose erano molto diverse. Nel gennaio 1980, quando il bassista Steve Harris – con il resto dei Maiden – arrivò ai Kingsway Studios di Londra per incidere i brani che avrebbero dato forma al loro disco d’esordio, aveva 23 anni. Il gruppo entrava negli anni 80 con una discografi­a composta da un unico Ep autoprodot­to, SOUNDHOUSE TAPES, un brano del quale (Wrathchild) stava per apparire nell’antologia METAL FOR MUTHAS. Due precedenti tentativi di realizzare un disco dei Maiden erano falliti, ma Paul Di’Anno, il loro cantante all’epoca, ricorda che l’umore non era particolar­mente stressato: “No, eravamo troppo gasati per sentirci sotto pressione”, dichiara oggi, ripensando a quell’esperienza. “Sapevamo che quello che avevamo in mano era unico, rispetto a tutti gli altri gruppi in giro, e avevamo trascorso gli ultimi

due anni suonando in ogni schifoso buco del culo d’Inghilterr­a – e anche in qualche posto decente, va detto. L’unica persona che poteva avere qualche dubbio ero io. Anche se come frontman facevo il duro, era molto fumo e poco arrosto, per cui quando mi ritrovai in studio mi resi conto di non sapere cosa cazzo stessi facendo”. Alla faccia della sincerità. Anche se i mesi precedenti avevano visto il gruppo accogliere due nuovi membri (il chitarrist­a Dennis Stratton e il batterista Clive Burr), Di’Anno faceva molto vita a sé. Era molto esplicito nel suo fare solo quel che gli andava di fare, e molto esplicito nei suoi attacchi allo status quo, una specie di pentola a pressione pronta a esplodere. C’era anche un altro problema. I Maiden avevano una finestra di lavoro strettissi­ma: dovevano realizzare il disco d’esordio prima che a febbraio iniziasse il tour Metal for Muthas. Questo fece sì che Martin Birch, il produttore che avrebbero voluto, non fosse libero: era occupato con HEAVEN AND HELL, il disco post-Ozzy dei Black Sabbath. Per cui, i Maiden si ritrovaron­o a lavorare con Will Malone, che aveva anche lui lavorato con i Sabbath, ma come arran- giatore e direttore d’orchestra. A oggi, nessuno ricorda come ci si arrivò. Anni dopo, Steve Harris avrebbe detto con una punta di veleno: “Quando vedevamo Malone sedere al bancone con i piedi sul mixer, intento a fumare un sigaro e a leggere «Country Life» – perché non faceva un cazzo di altro – di solito ridevamo tra noi. Cercavamo di avere un qualche feedback da lui, e la risposta era sempre una roba tipo: ‘Secondo me potete fare meglio’. E così alla fine lo ignorammo”. Come risultato, il loro debut album, IRON MAIDEN, fu realizzato fondamenta­lmente dalla band – che in quanto a produzione era alle prime armi – con l’aiuto del fonico Martin Levan. Oggi, visto lo status dei Maiden, è difficile immaginarl­i così tolleranti verso la mancanza di rispetto esibita da Malone. “Io sinceramen­te non lo ricordo seduto coi piedi sul mixer”, afferma Di’Anno, ridendo. “Se l’avessi visto, gli avrei fatto passare la voglia a calci in culo. Quello che so con certezza è che le canzoni di quel primo disco erano fantastich­e. Peccato che la produzione sia stata una merda”. Forse esagera, ma è giusto dire che nonostante il disco riesca abbastanza bene a catturare la cruda energia del gruppo, a partire dall’orgia di riff di Phantom Of The Opera fino al sapore più commercial­e duro e deciso di Running Free, la nitidezza, il colore e la profession­alità dei dischi successivi qui mancano. Comunque, è impossibil­e trovare difetti nei brani, quasi tutti scritti da Steve Harris. Il chitarrist­a Dave Murray contribuis­ce con Charlotte The Harlot, la storia di una prostituta che chiede cinque per i preliminar­i ‘and ten for the main course’, mentre il nome di Di’Anno appare accanto a quello di Harris come autore in due brani: Running Free e Remember Tomorrow. Secondo la leggenda, il testo di Di’Anno per il primo deriva dai suoi giorni da skinhead nell’East End di Londra. “Tutte stronzate”, replica oggi. “Io uno skinhead? Non farmi ridere. Ma quello è un canto di ribellione, non ti pare? Alla ‘’fanculo, non faccio quello che mi dite voi!’. Io facevo ciò che volevo io, volevo essere libero. È buffo che il testo parli di una prigione a Los Angeles. A quell’epoca, ancora non sapevo che tempo dopo ci sarei finito per davvero [Di’Anno verrà arrestato dal LAPD nel 1991, ndr]”. Anche se Harris è sempre stato molto chiaro nel criticare aspramente il punk rock, è difficile non cogliere una comunanza d’intenti con l’atteggiame­nto aggressivo del movimento punk, che ribolle sotto la superfice di molti brani, potenziata dall’atteggiame­nto “non me ne frega un emerito cazzo” di Di’Anno, che non a caso apprezzava – e pure molto – il genere concorrent­e. “Se vogliamo individuar­e un elemento punk nei Maiden di quel periodo, probabilme­nte veniva da me – specialmen­te sul palco”, afferma Di’Anno. “Inutile negarlo, quelle canzoni erano frenetiche, anche se avevano alcuni cambi di tempo molto prog. È questo che le rendeva uniche”. “Adoro il punk perché permette a tutti di provarci, non solo a quelli rinchiusi nelle torri d’avorio”, continua Di’Anno oggi. “Gli assoli di mezz’ora non sono il mio genere. Devi essere concreto, non

«Eravamo troppo gasati per sentirci sotto pressione. Sapevamo che quello che avevamo in mano era unico» Paul Di’Anno, cantante

importa se sei bravo o se sei una mezza sega”. Dennis Stratton, al contrario, amava gli assoli e le possibilit­à melodiche che potevano offrire alla musica. Una sera, quando il resto del gruppo aveva lasciato lo studio per tornarsene a casa, lui e l’assistente di studio Martin Levan aggiunsero vari strati di abbellimen­ti chitarrist­ici e armonie vocali a Phantom Of The Opera, un po’ alla maniera di Bohemian Rhapsody. “Non pensavamo che Rod [Smallwood, manager dei Maiden] ascoltasse cosa avevamo inciso. Era solo per divertirci”, ricorda Stratton. “Ma invece lui ascoltò, e ci disse: ‘Tanto per cominciare togliete tutto. Sembrano quei Queen del cazzo’. A quel punto, compresi che nel gruppo il capo era uno solo, e smisi di proporre canzoni”. I veri problemi con Di’Anno iniziarono a emergere durante il tour promoziona­le di IRON MAIDEN. “Paul stava vivendo una specie di crisi d’identità”, ricorda Stratton. “Di botto si metteva a cantare come Sting dei Police, e poi subito dopo senza un motivo andava sul palco con uno di quei cappellini bassi e tondi dei gruppi ska”. “Mi divertivo a stuzzicare Steve Harris e il pubblico con quelle cose”, ci dice Di’Anno ridendo al ricordo. “Ero uno dei pochi cantanti heavy metal senza i capelli lunghi. Vestivo come mi pareva. Se mi fosse andato di mettermi un caftano e i sandali, l’avrei fatto – ma non mi è mai venuto in mente”. Anche se i Maiden avevano fatto una gavetta durissima prima della pubblicazi­one dell’album, nessuno si aspettava che quel disco entrasse nelle classifich­e al n. 4. “La EMI sperava che facesse capolino nella Top 10”, ricorda Stratton, “per cui quando vendette quel che vendette, fu un bel colpo. E andare a Top of the Pops fu la ciliegina sulla torta”. Anche se alla lunga Top of the Pops esaurì la sua spinta fino a chiudere la sua corsa nel 2006, ai tempi d’oro il Teleclassi­fica show della BBC in prima serata attirava milioni di spettatori, e un passaggio nel suo studio era ambitissim­o. E infatti i gruppi rock e metal vi apparivano raramente. Ma quando nel febbraio 1980 i Maiden vi furono invitati a eseguire Running Free, si rifiutaron­o di farla in playback e riuscirono a suonarla dal vivo, lasciando di stucco una platea di fan del pop che non sapevano come ballarla. In un certo senso, questo incidente segnò l’inizio della scalata ai vertici dei Maiden: testarda, ostinata, decisa. Quando iniziò il tour, il divario tra il cantante e il resto del gruppo aumentò. Dopo essere riusciti ad assicurars­i un ingaggio come supporto per un tour con i Judas Priest, Di’Anno litigò con questi ultimi, minacciand­o di “sotterrarl­i”. Stratton ricorda che Di’Anno cercò di far cancellare una data del tour Metal for Muthas perché aveva problemi alla gola. Decisi a non deludere i fan, i Maiden si esibirono con Steve Harris nei panni di cantante. “Paul rimase a bordo palco, fissandoci tutto incazzato”, ricorda Stratton. “E non ci riprovò mai più”. Il disco seguente dei Maiden, KILLERS, dell’anno successivo, fu realizzato con Martin Birch: il produttore (con cui avrebbero lavorato fino al suo ritiro, dieci anni dopo) corresse gli errori che avevano rovinato il primo disco. Fu allora che Stratton fu rimpiazzat­o da Adrian Smith. Ai Maiden non era mai piaciuto che, pur amando il metal, essendo di parecchi anni più grande degli altri, Stratton ascoltasse anche altro, ad esempio band più melodiche come gli Eagles. A volerla dire più chiarament­e, la cosa che gli dava più fastidio era che a volte Stratton preferiva passare il tempo viaggiando con i roadie, invece che nel tour bus con i suoi compagni. “Quando Rod mi disse che ero fuori dai Maiden, in effetti non riuscì a darmi una motivazion­e sensata, se non che io non dimostravo di sentirmi fino in fondo parte del gruppo”, spiega oggi Stratton. “All’epoca Rod era un manager giovane e abbastanza inesperto, ma capiva di avere tra le mani qualcosa di potenzialm­ente immenso, per cui voleva isolare il gruppo e tenerlo in un bolla protettiva, così che nulla potesse andare storto”. Una volta che Smith, la loro prima scelta, si dichiarò disponibil­e, gli Iron Maiden si misero in moto per diventare la prima band metal al mondo. Ma avevano bisogno di un cantante su cui poter contare in ogni situazione. Nel settembre del 1981, Di’Anno fu licenziato. Al suo posto arrivò Bruce Dickinson, voce dei Samson: capelli lunghi, vestiti di pelle e la loro stessa cieca ambizione, insomma uno pronto, disposto e capace di portare i Maiden a un livello molto più elevato. “Non ce l’ho con loro perché mi hanno fatto fuori”, riflette Di’Anno. “Il gruppo era la creatura di Steve, ma mi sarebbe piaciuto poter dare un contributo maggiore. A un certo punto non ero più in grado di dare il 100% ai Maiden, e questo non era giusto nei riguardi del gruppo, o dei fan, o di me stesso”. Quarant’anni dopo, né Di’Anno né Stratton covano risentimen­ti. Entrambi hanno costruito una carriera da solisti, e restano orgogliosi del contributo dato al mito degli Iron Maiden. “Hanno fatto qualche errore lungo il cammino, ma Steve non ha mai cambiato il suo sogno”, riflette Stratton. “Permettere a Adrian e Bruce di essere maggiormen­te coinvolti nella struttura li ha resi molto più solidi. Steve è un magnifico leader e un autore geniale”. “I due dischi che ho fatto con loro sono stati fondamenta­li [per il genere]”, afferma Di’Anno. “Quando anni dopo ho incontrato Metallica, Pantera e Sepultura e tutti mi hanno detto che quei dischi sono stati la spinta a fare musica, ecco, sentendo questo mi sono sentito incredibil­mente fiero di me”.

«A quel punto compresi che nel gruppo il capo era uno solo, e smisi di proporre canzoni» Dennis Stratton

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Senza di loro, i giovani Maiden non sarebbero mai salpati: Paul Di’Anno (sinistra) e Dennis Stratton.
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