NO PRAYER FOR THE DYING
(EMI – Ottobre 1990)
Complici l’approccio rock’n’roll del nuovo arrivato e la nostalgia di Harris di un sound più ruvido ed essenziale, nasce NO PRAYER FOR THE DYING, disco di heavy metal nudo e crudo cui però mancano lo spunto e la genialità dei dischi precedenti. L’album non viene (né mai sarà) definito come brutto o del tutto scadente, ma è indubbio che qualcosa nel prodotto stesso non convince in primis la band stessa, che raramente ne riproporrà le canzoni in tour. A parte la stranota Bring Your Daughter… To The Slaughter (il singolo di maggior successo di tutta la carriera degli Iron) e la bella Holy Smoke, nessun
altro pezzo è destinato a diventare un cavallo di battaglia; è però corretto dire che di brani degni di nota (come l’avvolgente title-track o l’epica Mother Russia) ce n’era più di qualcuno. Senza essere un vero buco nell’acqua – l’album vende decentemente – l’ottavo disco firmato Iron Maiden rivela al mondo che anche la corazzata heavy inglese conosce l’incertezza e ciò renderà difficile il terreno per il successivo lavoro in studio. Forse un po’ ingenuamente, i ragazzi della band – ma soprattutto Bruce – finiscono per dare la colpa del risultato artisticamente non troppo convincente di NO PRAYER FOR THE DYING al luogo ove si tennero le registrazioni, un granaio di proprietà di Steve Harris situato a nordest di Londra. Proposto dal bassista allo scopo di ritrovare – grazie alla sua atmosfera
– lo spirito semplice e diretto degli esordi. Il luogo effettivamente ebbe le proprie responsabilità sul sound dell’album, ma secondo Steve si trattava di un aspetto che poteva essere corretto.