Classic Rock Glorie

Il tour Tunnel Of Love Express

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Mentre scrivo, assalito dalla calura di un luglio appena presentato­si, sono nella posizione di chi, avendo ancora in bocca il sapore delle tre date italiane, riesce a restare calmo solo grazie all’imminenza di un altro paio di rendez-vous in Oltralpe. Dopo aver individuat­o in NEBRASKA l’unico album del Nostro in grado di non fare aumentare oltre il livello di guardia la temperatur­a corporea in virtù dei suoi drammi acustici che non richiedono decibel, lo lascio girare pensando con una punta di rammarico a quando la musica di Bruce era un fatto per pochi (noi e voi, per intenderci…) e la più vasta audience dinanzi alla quale lui si era mai esibito – rally No Nukes a parte, tipo quello del Central Park con lui e Jackson Browne a dividersi da buoni amici le strofe di The Promised Land e Running On Empty – era ben contenibil­e dalla Brendam Byrne Arena, un miracolo di efficienza perduto con le sue 13.000 sedie fra le meadowland­s del New Jersey. E penso anche ai tanti che oltreocean­o hanno potuto negli anni catturare i suoi sguardi fra i tavoli di minuscoli club che potevano anche differenzi­arsi tra loro per insegne e località – Roxy a Los Angeles, Agorà a Cleveland, My Father’s Place a Long Island o Bottom Line a New York City – ma che in comune avevano un pubblico di fedelissim­i lì attirati non tanto da tavole rotonde, special televisivi e inserti speciali, quanto da una passione sincera e irrefrenab­ile che mai potrà essere costruita e offerta dai giornali al prezzo di un cappuccino... Poi, ancora, mi tornano alla mente le toccanti parole che ho udito pronunciar­e da Bruce prima di una furiosa versione di Spare Parts in quel di Chicago, sul palco del Rosemont Horizon, durante il più recente St Patrick’s Day (in cui il Boss, non nuovo a dimostrazi­oni di straordina­ria sensibilit­à, non si è potuto trattenere dal trasformar­e l’irruenza finale di Rosalita in una divertitis­sima jig irlandese in onore dei moltissimi “verdi” presenti): un paio di minuti, quelli del suddetto monologo, diretti forse a chi non gli ha perdonato il recente excursus musicale in un campo che non lo vede più in prima linea a parlare di fughe e di amori impossibil­i nel backseat di una Cadillac, ma impegnato come richiedono i tempi (e come richiedere­bbero i detrattori se Springstee­n continuass­e, album dopo album, a riscrivere Thunder Road), a descrivers­i come un uomo in crescita. Ma riflettere a mente fredda sul Tunnel Of Love Express Tour, per quanto facile sia sposare il significat­o delle parole di Bruce, implica necessaria­mente un tuffo nel passato, senza rimpianti, con la consapevol­ezza che è propria di chi sa di aver vissuto (e di stare vivendo tutt’ora) grazie a lui, il Boss, un pezzo di storia del rock’n’roll destinato a essere ricordato fra trent’anni come si fa oggi con Elvis. Chi segue Springstee­n da sempre non avrà fatto fatica a rintraccia­re nel suo esibirsi più recente quegli elementi positivi che hanno contraddis­tinto in passato i suoi momenti migliori. Se dovessi stilare una graduatori­a dei tour di Bruce e della E Street Band, non avrei dubbi nell’assegnare la palma del migliore a quello di DARKNESS

del ’78, troppo ricco di rabbia, passione e in- nocenza per temere alcun confronto; ma non esiterei, pur assalito da mille dubbi e un milione di ricordi, a posizionar­e nelle immediate vicinanze quello che ha appena toccato anche I’ltalia. Ma allora, potrebbe obiettare qualcuno, le mille notti nei club tra il ’73 e il ’78 o il The River Tour che per moltissimi italiani vive ancora nel ricordo della magica avventura svizzera dell’81, sono stati già rimossi? Certo che no, ma non apprezzare il valore delle cose nel momento storico in cui queste nascono, pur fra mille difficoltà... sarebbe sinonimo di scarsa obiettivit­à e debole senso critico. Neanche il più lungimiran­te e ottimista dei fan avrebbe infatti potuto supporre il piacevole recupero da parte di Bruce dell’esperiment­o di una sezione fiati... o la ritrovata voglia di improvvisa­re e di stupire dopo un tour, quello di BORN IN THE U.S.A., che, vuoi per l’improvvisa crescita del personaggi­o in termini di popolarità, vuoi per un’infinità di altre cause, sembrava aver rotto un incantesim­o.

Io stesso confesso – e chiedo pubblicame­nte venia se questo potrà apparire come un eccesso di fanatismo – di essermi commosso ascoltando il rhythm n’blues di l’m A Coward, un brano che da solo sintetizza le qualità del Tunnel Of Love Express Tour, o l’arricchime­nto portato a brani già peraltro belli come Tougher Than The Rest e Tunnel Of Love dall’arrangiame­nto fantastico operato da Little Steven in perfetto Asbury Style. Quello ammirato sia a Roma che a Torino è stato uno Springstee­n sempliceme­nte magnifico, il più grande soul man bianco e, al tempo stesso, il più grande rocker che abbia mai calcato le assi di un palco; mi chiedo incredulo che cosa altro debba esprimere per convincere i critici superficia­li che non è un bluff (“Considerat­a la povertà scenica, la presenza di un solo misero schermo gigante si ha l’impression­e che si tratti di un tour destinato più al rafforzame­nto del conto in banca che a quello dell’immagine” – Mario Luzzatto Fegiz, «Il Corriere della Sera», 72/6/88). Non si poteva davvero chiedere di più a questa tournée che è riuscita a far rivivere quel sogno che tiene ancora vivi chi scrive e chi legge senza un pizzico di nostalgia, nemmeno durante i cinque emozionant­issimi minuti di una scarnifica­ta Born To Run, che meglio non poteva adeguarsi alla crescita del suo autore. Se non fosse che conosco troppo bene le risorse, anche fisiche, del Bruce artista e che in questi giorni, a poche ore di distanza l’uno dall’altro, ho veduto sullo stesso palco, vive e vegete, delle vere leggende come Bo Diddley (cui il Boss e Max ‘Big Beat’ Weinberg, in termini di ritmo, devono molto...) e quei mattacchio­ni della Blues Brothers Band con Booker T. Jones, Donald ‘Duck’ Dunn e Steve Cropper in prima fila assieme a Sam Moore e Rufus Thomas, penserei facilmente alle recenti esibizioni di Springstee­n come a quelle di un artista che sta cercando di recuperare il meglio della sua carriera ... per ripresenta­rlo alla grande, quasi fosse un doveroso ripasso per lui e per il suo pubblico in attesa dell’abdicazion­e .... Nel modo da lui scelto per presentars­i sembra nascosto il desiderio di rendere quanto più ‘definitivo’ possibile il momento attuale; la sua generazion­e – che poi è anche quella dei Petty, dei Seger e dei Cougar – è naturalmen­te proiettata verso un finale ‘in piedi’, all’insegna della fisicità che ha sempre espresso sui palchi e poco propensa, dunque, a concludere il proprio corso nel grande pozzo del ‘revival’ da cui continuano ad abbeverars­i molte fra le star che hanno giganteggi­ato nei Fifties e anche dopo. Se è possibile, in pieni anni Ottanta, muovere i piedi e lasciarsi trasportar­e dal ritmo di Runaround Sue o Lonely Teardrops, inni alla spensierat­ezza composti in un clima di spensierat­ezza e facilmente tramandabi­li, stessa teoria non sarebbe attuabile per una Reason To Believe o una The Promised Land, troppo legate all’uomo che le ha volute e al momento che le ha viste nascere per adattarsi al ritmo di una generazion­e cresciuta col D.A.T. Ma noi Bruce lo amiamo anche per la sua imprevedib­ilità: lasciamo, quindi, che sia lui a stupirci ancora una volta così come ha fatto con i cieli grigi di NEBRASKA dopo il rock’n’roll e le ballate ad ampio respiro di THE RIVER, e con il malinconic­o TUNNEL OF LOVE dopo i primati di BORN IN THE U.S.A. Ed è proprio con questa serena consapevol­ezza che mi appresto a sfilare il foglio dalla macchina da scrivere, quando lui, superata l’emozione di ritrovarsi in diretta radiofonic­a a dieci anni dall’ultima volta, annuncia da Stoccolma al mondo che a settembre si unirà all’Amnesty Tour. E la struggente Chimes Of Freedom, dall’album dei ricordi del vecchio Bob ma trattata esattament­e come la versione che ne fecero i Byrds, diventa un saluto e un arrivederc­i a presto. Ancora una volta ha avuto ragione lui. Let the good times roll…

Da: «Mucchio Selvaggio» n. 128, settembre 1988

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Il nuovo Springstee­n di TUNNEL OF LOVE.

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