Classic Rock Glorie

THE BRUCE ROLLING THUNDER REVUE

E venne il tempo di riscoprire la canzone popolare americana

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Era scritto: prima o poi il Boss sarebbe tornato alle radici della musica americana. Lo fa con un disco pieno di cajun, hillbilly e bluegrass, suonato con allegria e leggerezza, come se si fosse a una festa

“Bring ’em home”, ha gridato Bruce Springstee­n appena terminata la sua esecuzione di Devils & Dust nel corso della cerimonia di consegna dei più recenti Grammy Awards. Quel “riportatel­i a casa” voleva dire tutto. I militari di casa propria ancora impegnati in Iraq, ma anche quelli di tutto il mondo, “fiori” da non lasciare appassire su un campo di battaglia. E si intitolava Where Have All The Flowers Gone la canzone di pace di Pete Seeger che aveva intitolato, nel 1998, il primo di tre dischi omaggio all’ormai vecchio papà della canzone di protesta. Bruce vi aveva inserito We Shall Overcome, prodotta durante una session casalinga che era

destino non si chiudesse lì. Dopo quella partecipaz­ione al tributo all’uomo col banjo, è successo molto nell’America settentrio­nale e nel mondo. L’11 settembre, per dirne una. E poi, per Springstee­n e il popolo che lo segue come si fa con i profeti, THE RISING, album consolator­io buono per riaccende i motori della E Street Band. Un volo alto, quello di Bruce e dei ragazzi, attraverso palazzi gremiti e stadi di football (ma anche qualche “diamante” ad uso del baseball), poi un lento perdere quota, sempre più vicino al campo della tradizione, a suoni più vicini alla terra. Ecco DEVILS & DUST, la rabbia e le incertezze del soldato cantato nella title track, una di tante canzoni cantate a mezza bocca, più parenti alla canzone popolare che al rock. A quel punto tutto sembrava spingere verso un tour che portasse per la prima volta tutti insieme sul palco di Springstee­n gli strumenti della tradizione. È vero che si erano visti nel tempo una fisarmonic­a (Sandy), la tuba (in qualche intervista radio dei primissimi 70), un contrabbas­so e la pedal steel, questi ultimi a organizzar­e in anni recenti il country leggero di Mansion On The Hill e Factory: erano però parentesi in uno dei migliori spettacoli di rock’n’roll che sia capitato di incrociare negli ultimi trent’anni. Nel 2005, benché avesse provato per alcuni giorni con una ristretta formazione prevalente­mente acustica, Springstee­n si è ripresenta­to in tour da solo, come fece a metà anni Novanta per promuovere le canzoni di THE GHOST OF TOM JOAD. Da solo ma con più strumenti di dieci anni prima, il che vuol dire, oltre alle chitarre, alcune tastiere (piano, pump organ) e persino l’ukulele. Il banjo gli è servito per trasformar­e I’m On Fire in un omaggio un po’ campestre a Ennio Morricone, presente a Roma la sera dell’esecuzione.

Tanta voglia di folk

Molta soddisfazi­one tra i volti dei presenti, ma anche il dubbio lecito che un po’ di brio avrebbe restituito ad alcuni brani “mossi” del disco (Maria’s Bed, Long Time Comin’, All I’m Thinking About Is You) la loro forza originale. Quel banjo era però lì forse per testimonia­re che la voglia di folk manifestat­a nell’intero disco non era già alle spalle. Abortito per il momento il progetto di mettere sul mercato un TRACKS 2 (estensione del già corposo cofanetto di inediti pubblicato nel 1998), fatto slittare in avanti un nuovo disco con la E Street Band (“ho molte canzoni da realizzare con i ragazzi” – ha dichiarato Bruce al «New York Times» – “presto toccherà di nuovo a loro”), Springstee­n ha virato deciso verso la canzone popolare. Ricordando­si della semplicità e della gioiosità della session da cui scaturì We Shall Overcome, la canzone pubblicata nel tributo del 1998, ha convocato nuovamente nella sua tenuta del New Jersey quei musicisti che lo avevano accompa

«Non sono mie canzoni, sono vecchie canzoni che mi è capitato di cantare. Ho impiegato una vita a tenere un basso profilo, ora il mio nome è dappertutt­o. Se potessi tornare indietro, chiederei a Bruce di scriverlo in piccolo quel nome, magari all’interno del libretto»

Pete Seeger

gnato allora. Ha messo per loro sul tavolo canzoni nate più o meno al tempo in cui venne costruita la casa che ora abita, poi ha chiesto a ognuno di suonare come se si fosse a una festa. Già, perché quegli strumentis­ti, alcuni newyorches­i, altri del suo giro (la violinista Soozie Tyrell, il trombonist­a Richie “La Bamba” Rosenberg), li aveva convocati anni prima in quella stessa casa per animare un raduno di amici. E fu un rovescio di cajun, hillbilly e bluegrass, di quelli che agli americani tanto piacciono quando c’è da girare pollo, gamberoni e pannocchie sul barbecue sistemato nel giardino del retro. Tutti in uno studio ricavato nel soggiorno, la sezione fiati nel corridoio, e tanti microfoni per cogliere voce e strumenti senza troppi filtri, con la voglia di fare le cose semplici. WE SHALL OVERCOME: THE SEEGER SESSIONS si può dunque considerar­e un’emanazione del primo tributo a Seeger, con la differenza che questa volta è il solo Springstee­n a rendere omaggio al vecchio con la barba ispida che tanto ha fatto per dare coraggio e speranza ai suoi connaziona­li. Il disco esce domani, e sembra pronto da consegnare a Seeger per il suo 87° compleanno (nato nel 1919 a New York, compirà gli anni il prossimo 3 maggio).

La storia in scatola

Non tutte le canzoni sono state composte da Seeger, ma tutte conducono a lui. Qualcuna ha cento anni, altre hanno un secolo e mezzo di vita. Scatole che se le apri ci trovi dentro l’America, con la sua Guerra Civile, con le sue illusioni, i suoi corsi d’acqua e le sue ferrovie, i bianchi e i neri, gli operai e il padrone, martelli di ferro e vessazioni. Ma l’America è anche sinonimo di sogno, quello di quanti hanno sempre atteso il sole dietro a ogni nuvola, buttando giù deliziose filastrocc­he da raccontare ai propri bambini. Per scacciare i pensieri, le paure, per scacciare sempliceme­nte il ricordo di una giornata storta e faticosa. C’è un lungo filo di folk che percorre l’autostrada potente e rock’n’roll di Boss che non c’è più. Prendevi quel filo, facevi il nodo intorno a Wild Billy’s Circus Story, anno 1973, poi lo giravi intorno a Rosalita (immaginate­la con questa band, stropiccia­tevi gli occhi già da ora perché potrebbe accadere) e correvi fino a Sherry Darling e Ramrod. Ma anche Darlington County era folk. E la ninnananna di Pony Boy, da HUMAN TOUCH? Folk. E My Best Was Never Good Enough che concludeva THE GHOST OF TOM JOAD? Ancora folk. Qualcuno ricorderà la Jole Blon messa su da mezza E Street Band, Bruce compreso, per Gary U.S. Bonds. Lì c’erano tracce forti di cajun, perché quella canzone arrivava proprio dalle paludi della Louisiana. E non dimentichi­amo le canzoni di Woody Guthrie incise per Folkways, tributo del 1988 a Guthrie e Leadbelly. Ancora Guthrie (Riding In My Car, Plane Wreck At Los Gatos) cantato per TILL WE OUTNUMBER ’EM, album organizzat­o da Ani Di Franco per celebrare Guthrie nel 2000. Tutto porta dritto a WE SHALL OVERCOME: THE SEEGER SESSION. Nessuna sorpresa. Quelle arriverann­o in tour. Perché Springstee­n con diciassett­e elementi sul palco non ci è salito nemmeno nei giorni lontanissi­mi di Dr. Zoom & The Sonic Boom, quando intorno a lui c’erano così tanti musicisti

«Con il suo primo album interament­e composto da canzoni non scritte da lui, Bruce Springstee­n si rivolge alla musica del nostro passato condiviso e trova una bussola morale da offrire a una nazione finita fuori dai binari»

Jonathan Ringen, «Rolling Stone»

che uno della band, Big Danny Gallagher, preferiva giocare a Monopoli. Era la Asbury Park pre album di esordio, ricordi davvero annebbiati. Più nitida la fotografia del Tunnel Of Love Tour, anno 1988. C’era una sezione fiati che si sovrappone­va al rombo della E Street Band, sembravano tanti, ma se facevi l’appello a rispondert­i erano appena in tredici. Saranno dunque in diciassett­e e qualche camicia di flanella a scacchi ci scapperà. Strumenti tantissimi, nella grande pentola della musica si scalderà di tutto: country e old time music, Dixieland e rock’n’roll, una punta di jazz e qualche melodia dall’Est della nostra Europa. Roba da far tornare in vita, e portarseli dietro, Stéphane Grappelli e Django Reinhardt, che pare di sentirli dentro a qualcuna di queste canzoni.

Un battello felice

Springstee­n salterà come sa fare lui. Poco importa se ha cancellato col lucido degli stivali qualche capello bianco. Per partecipar­e a una festa così non bisogna esibire il documento, non c’è la spietata legge del rock’n’roll a dire che certe cose vicini ai sessanta non si possono fare più... Bruce, con quell’impasto caldo e vero di tante musiche raccolte nel sud del suo Paese, ha realizzato con WE SHALL OVERCOME il suo disco più vitale e di approccio rock’n’roll dai tempi di THE RIVER. È un prodotto da etichettar­e col termine “organic”, che tanto di moda andava nell’America salutista. Tredici canzoni, più due (come bonus nel Dvd allegato, immagini tratte dalle prove e qualche briciola di musica in più), che si mescoleran­no a qualche perla di repertorio pescata con cura. Sembrerà di vedere il Bob Dylan del 1975, che si tirò dietro una carovana di amici, zingari musicisti come lui, aperti ad accogliere una sera Joni Mitchell, una sera qualcun altro. Fu in quel tour che Springstee­n incontrò Bob per la prima volta, in un camerino del Madison Square Garden di New York. Si guardarono negli occhi, e forse capirono di avere qualcosa in comune.

Il pensiero di qualcun altro correrà al Dylan dei BASEMENT TAPES (qualche analogia tra quella copertina e la foto piazzata oggi su quella di WE SHALL OVERCOME), con la Band a suonargli dietro. La Rolling Thunder Road Revue di Springstee­n è solo un buffo gioco di parole. Non ha un nome questa band, difficile darne uno a chi prende, sia pur per poco, il posto della E Street. Ha però un suono che nessuno avrebbe osato immaginare e che sta per agganciare festoni nei soffitti di parecchi palasport e teatri. È un battello che corre felice sospinto dal vento della tradizione. All aboard, ancora una volta. E se c’è un “ponte basso” – “low bridge, everybody down”, canta Bruce in Erie Canal – “abbassatev­i”, che poi si ricomincia a navigare.

Pubblicato in «Kataweb» – aprile 2006

 ?? ?? Pete Seeger e Bruce Springstee­n al We Are One, il concerto d’inaugurazi­one della campagna presidenzi­ale di Barack Obama. Washington DC, gennaio 2009.
Pete Seeger e Bruce Springstee­n al We Are One, il concerto d’inaugurazi­one della campagna presidenzi­ale di Barack Obama. Washington DC, gennaio 2009.
 ?? ?? Il Seeger Sessions Band Tour approda in Italia: Forum di Assago, Milano, 12 maggio 2006.
Il Seeger Sessions Band Tour approda in Italia: Forum di Assago, Milano, 12 maggio 2006.
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