AL LAVORO SU UN SOGNO
Colmare la distanza
La distanza è quella tra il sogno americano, che Springsteen ha cantato e del quale ha svelato i tradimenti perpetrati dai potenti, e la realtà: un vuoto che il Boss pensa possa essere colmato da un uomo, un presidente
“Yes, I can”, diceva in una sua vecchia canzone David Crosby, ma soprattutto Yes We Can Can (composta da Allen Toussaint) gridavano le Pointer Sisters proprio quando Springsteen esordiva per la Columbia. È lo slogan che a Bruce è piaciuto subito, tanto da indurlo a manifestare pubblicamente attraverso il suo sito l’intenzione di appoggiare Obama. Il 16 aprile 2008, con il tour di MAGIC che aveva lasciato da poche ore Houston, in Texas, ed era diretto in Florida per un concerto destinato a essere annullato a causa della morte del tastierista Danny Federici (con Springsteen da 40 anni) la prima pagina di brucespringsteen.net presentava un testo appassionato ed eloquente, la cui prima parte si può così sintetizzare: “Come molti di voi ho seguito la campagna elettorale e credo di avere visto e udito abbastanza per sapere che Barack Obama sia di gran lunga il miglior candidato. Ha lo spessore, la capacità di riflettere e la determinazione per essere il nostro prossimo Presidente, quello che ci può guidare nel ventunesimo secolo con un rinnovato senso di missione morale. Obama parla all’America che racconto da 35 anni con la mia musica, una nazione generosa con una popolazione disposta ad affrontare problemi intricati e complessi, un Paese interessato al suo destino collettivo e al potenziale del suo spirito comune”. Quella del 2008 nei confronti di Obama se non è fiducia cieca poco ci manca: “Nella mia musica ho sempre misurato costantemente la distanza che separa il sogno americano dalla realtà americana, ultimamente quella distanza è aumentata fin troppo, però credo che Obama abbia usato nel tempo il mio stesso metro e sappia qual è il costo di quella distanza in termini di sangue e sofferenza per gli americani e per la loro vita di ogni giorno. Ovunque io porti la mia musica, anche molto lontano da qui, in piccoli e grandi stadi, non dimentico mai che l’America è la casa dei sogni e mille George Bush o mille Dick Cheney non riusciranno mai ad abbattere quella casa”. E poi: “Io voglio che il mio sogno mi venga restituito, rivoglio il mio Paese, rivoglio la mia America”.
Una ragione per credere
WORKING ON A DREAM è il primo passo. Da questo punto di vista, che è quello di chi ha in mano solo una manciata di canzoni, non tutte quindi, buone informazioni e una track list che sa rivelare già qualcosa, il successore di MAGIC ha molto in comune con l’album che lo ha preceduto. Il gioco lo conducono diversi elementi non secondari: la distanza ravvicinata tra i due dischi, il produttore che non cambia dal 2002 e l’organico che è pressoché immutato dalle precedenti session. Federici è presente in qualche traccia e dove non ce l’ha fatta sono le mani di Bittan a ricamare sull’organo o quelle del nuovo arrivato Charlie Giordano, traghettato dalla Seeger Sessions Band alla E Street Band con pochi giorni di prova alle spalle quando Federici ha iniziato il ciclo di cure dalle quali non si è più ripreso. WORKING ON A DREAM, l’album, inizia a dare le prime vere tracce di sé qualche giorno dopo la prima esecuzione pubblica della canzone che, va ricordato, quando viene cantata a due voci da Springsteen e da Patti Scialfa si sospetta possa essere parte di un nuovo album ma nulla lo conferma. Bisogna attendere il 17 novembre per dare un senso ancora più compiuto a quel pezzo il cui destino poteva anche essere diverso. Un comunicato dello Shorefire Media, l’ufficio stampa che rappresenta Springsteen e altri artisti tra i quali Elvis Costello, Norah Jones, Diana Krall e Tom Morello dei Rage Against The Machine, avverte che il nuovo album di Bruce Springsteen sarà nei negozi il 27 gennaio, pochi giorni prima della data (1° febbraio) in cui Springsteen e la E Street Band apriranno a Tampa, con la loro esibizione, la finale del Superbowl. Il disco, previsto anche in versione deluxe doppia (40 minuti di documentario in Dvd più altro, questo promette l’allegato), conterrà dodici canzoni più due bonus – The Wrestler e A Night With The Jersey Devil – e si sa che è stato registrato sull’onda di MAGIC e nelle pause del tour che lo ha seguito. Stessi studi di quel disco (e THE RISING), i Southern Track di Atlanta, più sovraincisioni a New York, Los Angeles e nel New Jersey, nello studio di casa Springsteen. Partiamo dalla coda, destinata poi a essere ridotta in quanto su Jersey Devil, si saprà più tardi, ci sarà un ripensamento del management. Venerdi 31 ottobre, Halloween, arriva una sorpresa che nemmeno a Natale ne servono di così belle. Era accaduto che Bruce Springsteen cantasse a sorpresa in un club del New Jersey. Era capitato a qualcuno di passare davanti alla sua mansion, a Rumson, e trovare una parata di zucche, streghette e fantocci, per la felicità dei piccoli di casa e del vicinato. Era accaduto questo, nel giorno di Halloween dalle parti del Boss e dintorni. Ma il 31 ottobre 2008 Bruce ci lascia di stucco e fa il suo barbatrucco più riuscito. Scrive più o meno così sul suo sito
ufficiale: “Scusateci se quest’anno, a causa del “catastrofico successo” delle passate stagioni, non festeggeremo Halloween nel nostro giardino, ma è per la tranquillità del vicinato e per non mettere in pericolo ragazzini e genitori”. Il tono è buffo e divertito, ma il succo è: “Niente baldoria, ci dispiace, quest’anno va così”. Dopo MAGIC, tra cilindri, conigli e parole invece molto serie, di guerra e aria irrespirabile nell’America di Bush, Springsteen tira fuori dal suo cilindro – ehm, dalla sua zucca – una sorpresa inaspettata e spettacolare.
Ha confezionato un brano nuovo di zucca – no, di zecca, A Night With The Jersey Devil (affondando le mani nel blues, un blues elettrico e sporco come certe cose di George Thorogood, vedi Bad To The Bone), dotato di un tocco mefistofelico alla Tom Waits e con tracce dell’ultimo Dylan in blues, naturalmente, e del rock’n’roll dei primordi (citiamo Heartbreak Hotel di Elvis). Nulla di originalissimo, un cliché oseremmo dire, ma urlato in un microfono molto blues, appunto, di quelli che Waits ama tanto e che lo stesso Bruce sfoderava sul palco mesi fa per cantare, rileggendola in perfetta chiave musica del diavolo, la Rea soBnr Tu oc Be eS li epvreinrigp set se ce anta, da NEBRASKA. Di suo pugno, oltre19a7l2la. canzone (che tra i credits di composizione elenca il Boss, Robert Jones e Gene Vincent), Springsteen ci mette una nota che recita: “Cari amici e fan, se siete cresciuti nella zona centrale del New Jersey e anche a sud, saprete tutto del Jersey Devil. Be’, questa è tutta per voi, divertitevi”. Così clicchi play e parte un videoclip realizzato con tutti i crismi, recitato anche, il che non accadeva per Bruce da tempo. Ma che succede? Succede che dopo una grafica messa lì a ricostruire la leggenda del Diavolo del New Jersey (“Tredicesimo figlio dei coniugi Leeds, tra i primi a sistemarsi nella Atlantic County circa 250 anni fa”) ci assale un brano di rara potenza, non preannunciato. È uno scherzo di Halloween o l’inizio di una cosa più seria? Una burla
«Obama parla all’America che da 35 anni racconto con la mia musica»
Bruce Springsteen, 2008
«Voglio che il mio sogno mi sia restituito, rivoglio il mio Paese, rivoglio la mia America»
Bruce Springsteen, 2008
e basta. Perché, come detto, nell’album il pezzo ci entra per pochi giorni, poi scompare dalla track list. Restano le belle immagini di Springsteen (che cavalca in una notte sinistra, che spunta con sguardo truce dalle acque di un lago, che soffia in un’armonica con la potenza di un consumato bluesman), immagini che qualcuno strappa dalla rete e si conserva perché non si sa mai, potresti non rivederle più. E c’è qualcun altro che ora ricorda qualche concerto di Springsteen & The E Street Band anni 70, e quegli album bootleg che li immortalavano, intitolati HOT COALS FROM THE FIERY FURNACE e proprio THE JERSEY DEVIL. Diavolo di un Bruce, che scherzo gustoso, però a pensarci bene questo pezzo sta bene dov’è e dove rimarrà, negli archivi di quelli che collezionano tutto. Da come muove i primi passi il disco, forse un Jersey Devil sarebbe stato di troppo.
Un giorno fortunato
WORKING ON A DREAM appare in versione full band il 17 novembre, il giorno del comunicato dello Shorefire Media. Prima grazie a un trailer che la NBC trasmette tra i due tempi di una partita di football (l’audio viene montato su immagini di gioco) poi online, ascoltabile attraverso il sito della web radio americana Q1043, quindi – giorni dopo – acquistabile in formato mp3 attraverso l’esclusiva concessa a iTunes. Buono l’impatto, gradevole lo scorrere del pezzo, molto giocato su una vocalità alla Roy Orbison inserita in un quadro sonoro che ruba elementi al Bruce più moderno riuscendo a essere anche concretamente pop-rock senza stravolgere la matrice classica di Bruce. Si avverte un missaggio più limpido rispetto a certe cose di MAGIC. È il 21 novembre quando il pezzo arriva nei computer di chi ne fa richiesta, 24 ore esatte dopo il momento in cui la stessa catena di Amazon aveva reso visibile la copertina del singolo virtuale. Mancano più di due mesi alla pubblicazione del disco, nemmeno i 45 giri anticipavano così tanto l’uscita degli album. Dancing In The Dark, per fare un esempio, era nei negozi a maggio, BORN IN THE U.S.A. che la conteneva uscì nemmeno un mese dopo, il 4 giugno 1984.
L’altro pezzo presto disponibile all’ascolto è The Wrestler. Strana storia. È una canzone richiesta mesi fa a Bruce dall’amico Mickey Rourke, impegnato in un film sul wrestling, la storia intima e appassionata di un uomo,
Randy “Ram” Robinson, che ne ha passate tante, ne ha date e ne ha prese. Bruce tifa per Michael, è un suo fan, così generosamente gli dona un brano speranzoso di risollevarne le quotazioni nel borsino degli attori. Il regista Darren Aronofsky ha raccontato giorni fa, a film uscito: “Mickey mi disse che per Bruce era ok. Ci scrisse una lettera dopo aver letto la sceneggiatura: ‘Sono in pieno tour, ho qualche idea, ci sentiamo presto’. Poi un giorno arriva Mickey: ‘Andiamo da Bruce, suona al Giants Stadium’. Così siamo lì in prima fila, 80 mila persone dietro di noi, poi finiamo nei camerini e per la prima volta avverto quel tremore di chi sale sul palco. Bruce prende la chitarra e suona per noi questa canzone meravigliosa, perfetta, composta senza nemmeno avere avuto il tempo di vedere il film”. The Wrestler è figlia di quei momenti in cui Springsteen si cala nel protagonista di un film e lo fa con una sensibilità che lo porta a scrivere dei piccoli capolavori (Streets Of Philadelphia e Dead Man Walking parlano da sole). L’avvio è di quelli sospesi, con un eco lontano di tastiere e il piano che appoggia due note. Siamo tra Lift Me Up (scritta per il film Limbo) e Morricone, una delizia. Poi una chitarra acustica riporta su terreni
più folk, per una strofa di bellezza incredibi- le che conduce a un ritornello melodicamente molto pop, che ti cattura e ti mette al tappeto, manco avessi di fronte Mickey Rourke tutto sudato che ti schiaccia il suo torace sul viso. The Wrestler avrà su WORKING ON A DREAM il ruolo che fu di Terry’s Song in MAGIC, ma è più bella, più importante, ancora più commovente: “Hai mai visto un cane zoppo farsi largo per la strada? Se lo hai visto hai visto me / Hai visto me, che arrivo e busso a ogni porta / Hai visto me, che ogni volta vado via con meno di ciò che avevo / So farti sorridere quando il sangue colpisce il pavimento / Dimmi, spettatore, potresti chiedere più di questo?”. È la canzone di chi si concede fino allo stremo delle forze, è la canzone di chi certa generosità ce l’ha dentro, che sia un rock’n’roller o un wrestler sfatto e soprappeso. My Lucky Day è roboante e scorrevole come lo erano state No Surrender, Lonesome Day e Radio Nowhere negli album rock insieme alla E Street Band, e questo ci porta a una riflessione: non capitava dal 1980 che si susseguissero nella carriera di Springsteen due album rock con la E Street Band al completo a suonare tutta insieme. L’accoppiata DARKNESS + THE RIVER non si era mai più ripetuta, fino a oggi. C’era sempre stato un disco “anomalo”, che fosse solista, acustico o live, a interrompere una sequenza che era stata una consuetudine tra il 1973 e, appunto, il 1980. La canzone, 4 minuti di energia per un songwriting che non fa gri- dare al miracolo e un testo che recupera immagini già viste, è però di quelle che “legano”, che fanno album. Il pubblico le consegnerà un ruolo più preciso quando la potrà ascoltare in sequenza, incastrata nel disco tra Outlaw Pete e Working On A Dream, e non abbiamo dubbi sul fatto che dal vivo farà la sua figura. Molte le canzoni brevi, forse a compensare la durata davvero singolare della opening track, Outlaw Pete, una stranezza se consideriamo che apre un album rock datato 2008. Ma Outlaw Pete saprà conquistare malgrado la lunghezza da primato (oltre 8 minuti), è una cavalcata che intreccia chitarre, armonica e organo, sorta di Land Of Hope And Dreams che chi scrive ha ascoltato – è l’unico caso – in collegamento telefonico con gli Stati Uniti senza poter cogliere molto del testo, che farebbe pensare a un ulteriore omaggio a Pete Seeger.
Un disco per tutti
Colpisce come ben tre titoli di un album che nelle intenzioni e nelle dichiarazioni di Springsteen è eredità del pop scaturito dalle session di MAGIC, siano identici a prodotti di casa Beatles, perché Tomorrow Never Knows era nel capolavoro REVOLVER, Surprise, Surprise navigava nei Lost Tapes di Lennon e Life Itself si intitolava un pezzo di SOMEWHERE IN ENGLAND di George
Harrison. Incuriosisce What Love Can Do, che viene descritta come “piena di chitarre a dodici corde in perfetto stile Byrds”, e The Last Carnival che giureremmo dedicata al compianto Danny Federici, la cui fisarmonica in Sandy suonava nel clima di un carnevale e il cui figlio Jason fa una comparsata nel disco. Pop e wall of sound sono le parole più spese nella descrizione del disco da chi ci ha lavorato. Staremo a vedere. Una copertina poco promettente perché un po’ pacchiana nei colori e nella grafica (però ricorda l’esordio degli It’s A Beautiful Day, ricordi psichedelici dal 1969) si manifesta nei giorni in cui questo articolo viene battuto. Mostra un Bruce Springsteen immerso nei suoi pensieri, spalle alla luna e a un cielo stellato, con le nuvole che sembrano pronte ad andar via. Anche noi siamo qui, waiting on a sunny day. Perché questo disco è stato “battezzato” in un giorno davvero di sole, il 4 novembre scorso, quando un ragazzo nero, dopo le promesse spezzate di Martin Luther King (“I have a dream”) è tornato a parlare all’America di come si può provare a “costruire un sogno”. È dunque anche il disco di Barack Obama, altro sognatore, anche se poi per sua stessa natura e per la facilità che ha Springsteen di entrare nella vita di tutti, finirà con l’essere il disco di ogni uomo.