DEMOLIZIONI La forza per parare il colpo
Eroe del contemporary folk con gli stivali affondati nelle acque del soul. Per la prima volta, il Boss mette in uno stesso disco queste sue due anime, e prova a rivolgersi contemporaneamente ai bianchi e ai neri
“Vedo un nuovo mondo in ar- rivo, scorgo delle luci”, canta il protagonista di Jack Of All Trades, il quarto brano del nuovo album di Bruce Springsteen, il disco che ci fa ricordare che sono trascorsi appena cinquant’anni dalle registrazioni delle canzoni finite su GREETINGS FROM ASBURY PARK, N.J. C’è scritto 2012 sulla copertina ed è un buon motivo per guardare all’indietro e voltarsi verso una carriera incredibilmente ricca e generosa. Se Bruce non esistesse, in molti ne lamenterebbero la mancanza. Anche una buona parte di quelli che non sanno intercettare l’utilità delle sue canzoni. Se si dovesse scegliere di raccontare in cinque mosse quel percorso quarantennale partito da Feehold e giunto fino a qui, questo disco starebbe in una mano insieme a BORN TO RUN, BORN IN THE U.S.A., THE GHOST OF TOM JOAD e THE RISING, una carta pesante da mettere sul tavolo per ogni decennio di attività. Springsteen sembra davvero l’uomo tuttofare di Jack Of All Trades, perché strumenti vari al collo e una parola buona per ogni tipo di sofferenza non sembra minimamente lontano dal giovane folksinger che nei primi Settanta si guadagnava attenzioni suonando in acustico nel Greenwich Village, eppure ha lo sguardo ancora vigile su quello che accade nel mondo adesso, sale di registrazione comprese. Sa farsi novello Johnny Cash in We Are Alive, ma contemporaneamente chiede al grande chitarrista Tom Morello di regalargli quelle sferzate di energia che lui ha conosciuto nei dischi degli Audioslave e dei Rage Against The Machine. Come il protagoni- sta di Badlands, che voleva “il cuore, l’anima, il controllo” e lo voleva all’istante, l’uomo del New Jersey sembra determinato a prendersi tutto e a dare tutto, in una raccolta di canzoni che formano un caleidoscopio assai convincente.
Un ruggito per tutti
Il Bruce osservato qui è un eroe del contemporary folk (in quella categoria primeggiò ai Grammy negli anni Novanta) ma ha anche gli stivali bagnati nelle acque del soul. Mai prima d’ora aveva fatto coincidere su disco le sue due anime esterne al rock’n’roll. Avendo deciso di provare a parlare a tutti – ai bianchi più incollati alla tradizione e anche ai neri che frequentano le aree dell’hip hop – ha optato per un lessico frastagliato, efficace in un raggio d’azione più ampio del solito. Anche se THE RISING trascendeva nel soul con My City Of Ruins, con Bruce a urlare “C’mon rise up” come se si trovasse sull’altare di una chiesa di Harlem e impacchettare la canzone in stile People Get Ready anni Duemila, avevamo sul piatto sostanzialmente un disco di white rock’n’roll, pensato per bianchi, perché bianche erano, in larga parte, le vittime del World Trade Center e bianchi i vigili del fuoco rimasti prigionieri all’interno, avvolti nelle fiamme e nel loro eroismo. Qui bisogna urlare anche per conto dei disperati del dopo-Katrina, l’uragano in grado di mettere in ginocchio con una bomba d’acqua tutta New Orleans e le baraccopoli cintura della città, dove la miseria non ha colore, e se lo ha ti accorgi che è nero. Laggiù, ma non solo, arriva oggi un ruggito che vibra di gospel, folk, che possiede sfumature irlandesi e che si affaccia sul rap. Un urlo di forza diretto a tutti, anche a chi dalle zone tormentate della Louisiana è lontano ma sta combattendo contro la speculazione d’azzardo e la decimazione dei posti di lavoro. Questo è il greatest hits delle mille strade battute da Bruce in cinquant’anni di carriera, dal jazz-soul di The E Street Shuffle al beat urbano di Streets Of Philadelphia (del brano colossale che valse a Springsteen l’Oscar, Rocky Ground raccoglie qui quella voglia di sentirsi contemporanei). Leviamoci il cappello al passaggio di questo vecchio rocker non domo, anzi integro, generoso e coerente, capace di guardare nei cassetti della sua immaginazione e prendere tutto, senza imporsi limiti. Per come si muove in quest’ultimo lavoro, ci fa pensare a una moltitudine di eroi della musica: a Joe Strummer e a Pete Seeger, ai giovani amici Dropkick Murphys e a Curtis Mayfield, all’uomo in nero Cash (c’è un po’ di Ring Of Fire nelle note conclusive del disco) e all’innovatore Moby (l’intuizione di certi campionamenti blues arriva dal piccolo genio newyorkese dell’elettronica). Bruce ci incuriosirebbe anche se lasciasse sul tavolo un disco di tiepido rock’n’roll. E invece ci rovescia addosso un pentolone di acqua bollente, che sulla pelle e nell’anima lascia piaghe. Impila parole su cui riflettere. Scuote. WRECKING BALL è nient’affatto una accorata, sommessa e un po’ pietosa lettera agli americani, come qualcuno ha lasciato intendere: piuttosto è l’ennesimo colpo di frustino, assestato al momento giusto e nel posto giusto. Per tempismo sembra la replica di THE RISING, prova a far muovere i
«Ho passato tutta la mia vita a misurare la distanza tra la Realtà Americana e il Sogno Americano»
Bruce Springsteen
garretti e tendere i muscoli a un cavallo azzoppato – l’America – che sbuffa e tentenna al bordo della strada. Ogni volta che si alza un “Bruce, we need you”, c’è un accordo del Boss. Nel 2002 si chiamarono Lonesome Day, The Rising, Into The Fire le àncore di salvataggio lanciate da casa E Street. Oggi, a lenire il dolore, ci sono un ritornello salvavita (We Take Care Of Our Own), una preghiera per un’altra città colpita (Death To My Hometown), un cerotto sotto al quale far crescere una crosta, che è sempre meglio della carne viva al centro di una ferita. Allora il pensiero era per la zona meridionale di Manhattan con le sue torri venute giù, oggi vola a New Orleans e al suo Superdome col parquet del basket diventato il dormitorio dei disperati schiaffeggiati dall’acqua, dal vento e dai tronchi d’albero. Di America, di vita e di morte si parla da sempre nelle canzoni di Springsteen. Non può essere altrimenti. Per questo, le note che avvolgono tutto questo sentire non possono che organizzare delle grandi danze blues, gospel, soul, folk, per esorcizzare la speculazione d’azzardo e l’azzeramento di fabbriche e lavoro. È speranza al costo di un 45 giri. Qui c’è un primo singolo che è una canzone di protesta. Springsteen vi ha infilato dentro un battito di mani che sa di pista da ballo e disimpegno, e un po’ di radio l’hanno pure suonato. Il ruspante folclore (Easy Money) e il gospel intriso di Irish folk (Shackled And Drawn) sputati da queste canzoni sono i compagni ideali della rabbia e del tormento che esse esprimono. Sul treno di WRECKING BALL, quello che con un biglietto di sola andata ti porta di nuovo nella Terra della Speranza e dei Sogni, si fa festa, si balla e si danza, si gonfiano le vene del collo e si tengono le gonne con le mani. E si sorride, come sorridono quei popoli africani, con i loro denti bianchissimi, quando Dio manda carestie e malattie fulminanti. La forza del sorriso contro un destino maledetto. Il rock’n’roll, una denominazione che tende a morire quando lascia il posto al rinfrancante mix di opere come questa, ha sempre avuto questo ruolo e sempre lo avrà.
«Quando la tua personale palla demolitrice arriva a colpirti, queste canzoni ti danno la forza per parare il colpo, per restare in piedi. Rispediscono al mittente quell’inferno»
Jim Beviglia, «American Songwriter»