HIGH HOPES L’energia per puntare in alto
Con THE PROMISE, Springsteen tornava agli anni in cui “si nasceva, si moriva e si rinasceva” nel tentativo di costruire il disco perfetto. Quei tempi sono andati ma la giovinezza non vuole andarsene...
L’immagine scelta per la copertina di HIGH HOPES, diciottesimo album in studio per Bruce Springsteen e successore di WRECKING BALL, ricorda il Doppio Elvis creato da Andy Warhol nel 1963. Springsteen veste in jeans come lì faceva il suo idolo, l’uomo che quando apparve in tv all’Ed Sullivan Show deviò per sempre il corso della vita del piccolo Bruce Frederick.
Elvis puntava verso l’obbiettivo una pistola, anzi due. Il musicista del New Jersey brandisce, come sempre ha fatto dai primissimi anni Settanta, una Fender Telecaster. Anzi due. Colui che venne dipinto come il futuro del rock’n’roll sembra specchiarsi, chitarra alla mano, nei lampi genuini dei giorni in cui bussava incerto alle porte del music business. Ci accoglie così da subito un’esuberanza che è figlia delle motivazioni che lo portarono poi a emergere. Ma questa gestualità istintiva, da operaio della musica, non è che un lato della medaglia e ha tutto sommato poco a che fare con i densi e maturi contenuti di questo suo nuovo lavoro, in cui convivono la voglia di accarezzare il passato ormai lontano e quella di insistere sulla strada percorsa nella seconda parte della sua carriera, da THE GHOST OF TOM JOAD e THE RISING in poi.
Vibra un’energia giovanile in questo progetto discografico di Springsteen, rintracciabile nel vigoroso incedere di alcuni episodi e tra le pieghe di qualche testo; e c’è tanto della semina fatta negli ultimi quindici anni. Per questo HIGH HOPES va misurato più con le carte anni 2000 tra le mani che con quella tutto sommato breve sequenza di dischi che consentì allo scalpitante Bruce di diventare il Boss in poco tempo. Dopo un tour che lo ha tenuto in giro quasi due anni, Springsteen ha dovuto fare i conti con la necessità e la voglia di tornare sul mercato senza aver speso molto tempo in uno studio di registrazione a fissare un po’ di nuove idee. Senza il consueto bagaglio di canzoni e canzoni di cui si è sempre favoleggiato (ma nel suo caso mai si è trattato di esagerazioni), ha ripiegato su una pratica che nel caso del precedente WRECKING BALL aveva portato buoni frutti: ha scrutato tra le sue vecchie session, ha scelto di offrire un nuovo vestito a canzoni che aveva già pubblicato o presentato dal vivo, infine – fatto per lui inedito negli album a suo nome – ha raccolto ispirazione lungo la strada scovando nel suo hard disc di ascoltatore attento qualche prezioso titolo altrui da reinterpretare.
Tanti sentimenti diversi
Non era affatto facile far diventare tutto ciò un disco. Soprattutto se si tiene conto della diversa provenienza di alcune delle registrazioni su cui è tornato a cantare o a sovrapporre strumenti o intere sezioni di fiati o d’archi. Springsteen sembra esserci riuscito, e anche se ha meno anni di gloria davanti di quanti se ne sia messi alle spalle, cerca gli stimoli di un ragazzino della musica, perché ha corpo ancora da cinquantenne e un cuore da ventenne. È come se costantemente, in strada o su un palco, continuasse a ripetersi “voglio sapere se l’amore è qualcosa di concreto, di reale”, interrogativo che arde ancora dentro la sua canzone più famosa, Born To Run. Meriterebbe un applauso solo per questo l’artista che, avviato verso i 65 anni, pubblica un album intitolandolo HIGH HOPES: Grandi Aspettative. Sogni. Speranze. Possibilità. Ne ha sempre parlato, Springsteen. Ne hanno sempre parlato le sue canzoni. Ne parla, da sempre, chi lo segue, lo studia, lo ama. La title track, e primo singolo, High Hopes, ha un ruolo scomodo perché mai prima d’ora la “canzone del titolo” era stata firmata da mani estranee, ma percorrere la strada del nuovo album di Bruce Springsteen partendo dall’angolo più incerto (si fa per dire) equivale a trovare la luce del sole in breve tempo, e poi a godersela, perché – come cantava il ragazzo Bruce in Blinded By The Light – “è lì che c’è tutto il divertimento”: nel lasciarsi accecare. Registrare una cover nel 1995 e poi riprenderla quasi quattro lustri dopo, per farne la cover della cover, è pratica rischiosa. Figuriamoci per Springsteen, che se volesse potrebbe scriverne cinque al giorno, di canzoni come questa, senza andare a sbirciare nel canzoniere di una band sconosciuta ai più, come gli Havalinas. C’è chi ha sostenuto con energia che se proprio doveva essere un singolo, questa canzone poteva esserlo stata a metà degli anni Novanta, quando era più fresca di scrittura e quando attorno a Springsteen c’erano, per quella registrazione, ancora Clarence Clemons e Danny Federici. Critiche venate di malinconia, strozzate dal rimpianto per quel che non c’è più. Malattia del pubblico adulto, che è quello che ancora compra i dischi e che popola i concerti di Springsteen in un numero che nemmeno ottimisticamente si poteva prevedere un paio di decenni fa. Ma il pubblico di Springsteen ormai è una massa di sentimenti diversi, perché è figlio e padre, è futuro e passato, ma è soprattutto presente. È amore e devozione per Ste