Classic Rock Glorie

NEL GIARDINO DEI RICORDI Una lettera a tutti noi

Il Central Park, John Lennon, Phil Spector, Born To Run, i ragazzi della prima band e altri fantasmi... Piccola storia di un suono ritrovato: vi raccontiam­o le dodici canzoni dell’ album di studio più recente del Boss

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Quella di Bruce Springste- en per le strade di New York con i fiocchi di neve che lambiscono il suo viso – di Danny Clinch la foto che campeggia sulla copertina di LETTER TO YOU – è un’immagine che ci pare di conoscere. Lo abbiamo già visto muoversi nel freddo di Manhattan, Bruce, sulla copertina di un vecchio «Rolling Stone»: pattinava sul lago ghiacciato del Central Park sognando la strada poi fatta. Era il febbraio del 1981. La E Street Band e il suo Capo stavano per lasciare l’America diretti in Europa, per quello che sarebbe stato il loro primo lungo tour nel Vecchio Continente. Ad Amburgo avrebbero ricordato che di lì erano passati i Beatles, a Zurigo avrebbero vissuto il primo incontro con tanti italiani, così numerosi da trasformar­e il parterre dell’Hallenstad­ion nel primo di tanti ritrovi diventati un’affettuosa consuetudi­ne. Preistoria.

Il cuore a New York

Sono quasi quaranta gli anni trascorsi da quella foto in cui Springstee­n, cappottone e felpa a righe con cappuccio, guardava l’obiettivo di Annie Leibovitz.

La seduta fotografic­a del 2018, quella usata per LETTER TO YOU, ebbe invece come teatro l’incrocio tra Central Park West e la 72ma. Proprio lì si trova il Dakota Home, davanti al quale nel dicembre del 1980 venne assassinat­o John Lennon. In quel palazzone inquietant­e e scuro ancora oggi vive Yoko Ono, malata e accudita dal figlio Sean.

Durante la lunghissim­a striscia di concerti in solitaria al Walter Kerr Theatre, che gli annali ricorderan­no come Springstee­n On Broadway, gli Springstee­n avevano preso casa al 15 di Central Park West, non molto distante dal Dakota.

Il parco aveva visto Lennon protagonis­ta di alcune riprese realizzate dalla BBC nel novembre del 1974. In quei fotogrammi, John firmava autografi tra la gente, usciva dalla zona sud del parco e passeggiav­a lungo Columbus Circle, la stessa area in cui venne realizzata una photo session con Springstee­n e la E Street Band ai tempi di THE RIVER.

Esiste, a ben vedere, un rosario di collegamen­ti tra Lennon e Springstee­n. Sulla copertina di LETTER TO YOU, Bruce volta le spalle alla Settantadu­esima e guarda il Central Park. A pochissimi metri da lui sappiamo esservi il grande disco di marmo incassato nel pavimento che ricorda la morte di Lennon e segna l’inizio della porzione di giardino a lui dedicata, conosciuta come Strawberry Fields Memorial. Quando uscì Hungry Heart come primo singolo da THE RIVER, poco prima di venire assassinat­o in quello stesso incrocio da cui ora Springstee­n ci guarda, Lennon mandò a dire a Bruce: “quel pezzo mi piace da pazzi, ricorda certe produzioni di Phil Spector”. Spector, Mister Wall of Sound, l’uomo che aveva inventato le Ronettes e le Crystals, dando poi vita al più popolare dei CHRISTMAS ALBUM.

A lui Bruce si era ispirato per la Santa Claus Is Coming To Town che sotto

Natale amava eseguire nei suoi concerti, era il produttore a cui John si era affidato per l’album ROCK’N’ROLL e per il celebre rifaciment­o di Stand By Me. È proprio lui, ancora, che nel riferirsi al suo album BORN TO RUN Springstee­n aveva sempre citato come fonte d’ispirazion­e insieme a Bob Dylan e Roy Orbison.

La sera in cui Mike Chapman ferì a morte l’ex Beatle, proprio davanti al Dakota, Bruce e i suoi ragazzi erano a Philadelph­ia, suonavano allo Spectrum. Le prime parole ascoltate dal pubblico, prima ancora della musica, furono: “Se non fosse stato

per John Lennon, molti di noi sarebbero da un’altra parte questa sera. È un mondo difficile, che ti mette di fronte a cose inaccettab­ili ed è dura essere oggi su un palco a suonare, ma non c’è altro da fare”. Poi, con Born To Run, Bruce avviò lo show.

Una città di fantasmi

LETTER TO YOU è in molti episodi l’album dei fantasmi, un tema non nuovo quello delle presenze-assenze per Springstee­n, che col gospel-folk di We Are Alive concludeva WRECKING BALL (“Anche se i nostri corpi riposano al buio / È il nostro spirito a portare ancora fuoco e a favorire la scintilla” ).

Ci sono figure dalle quali Bruce si sente inseguito, così in questa lettera – serena, scevra da alcuna inquietudi­ne, e quasi sempre potente nei suoni – canta ora la sopravvive­nza, non più la costruzion­e di una vita.

Dove little by little, piece by piece una volta assistevam­o a un promettent­e, energico accumulo (di gioie, di speranza, di curiosità), oggi si vive per forzata sottrazion­e. Se si esclude la morte del suo primo batterista Bart Haynes, perito in Vietnam nel 1967 quando la band giovanile chiamata Castiles muoveva i primi passi nei bar e nelle palestre del New Jersey con qualche toccata newyorches­e al Café Wha (dove Bob Dylan aveva esordito nel 1961), sono le morti di Elvis Presley (1977) e di Lennon (1980) ad aver per prime inciso fortemente sulla coscienza dello Springstee­n musicista. Dall’estate di Born To Run a oggi, Bruce è passato dall’energia e dalla voglia di fuga e di vita che sono l’essenza del rock’n’roll, quella ereditata da Chuck Berry e da Little Richard, dai Beatles e dai Rolling Stones, alla malinconia di chi fa la conta delle persone che non ha più intorno a sé. Negli ultimi dieci anni, ha composto canzoni

«È lui l’uomo che ancora resiste, quel last man standing di cui canta in una delle nuove canzoni»

«Se non fosse stato per John Lennon, molti di noi sarebbero da un’altra parte questa sera. È un mondo difficile, che ti mette di fronte a cose inaccettab­ili, ed è dura essere oggi su un palco... ma non c’è altro da fare»

Bruce Springstee­n

per ricordare Haynes (The Wall), Danny Federici (The Last Carnival), il suo bodyguard e tuttofare Terry Magovern (Terry’s Song), ha dedicato a Clarence Clemons tutte le

Tenth Avenue-Freeze Out eseguite nel tour di WRECKING BALL (2012), il primo giro di concerti in cui sul palco si è lasciato affiancare dal giovane sassofonis­ta Jake Clemons, nipote di Big Man. A questi si aggiunge ora il fantasma di George Theiss, l’ultimo ad essere rimasto ancora in vita, insieme a Bruce, della formazione dei Castiles: Theiss è morto nella Carolina del Nord nel 2018. Bruce era in scena a Broadway, prese un volo privato e lo raggiunse per l’ultimo saluto. È lui l’uomo che ancora resiste, quel last man standing di cui canta in una delle nuove canzoni.

Con sincerità, come la title-track del nuovo album ha da subito annunciato, dopo anni difficili, ondivaghi, di esperiment­i che in studio qualche volta non hanno funzionato, Springstee­n ha fatto la mossa più giusta e attesa: ha ricompatta­to una E Street Band senza troppi fronzoli e in un lampo (cosa sono cinque giorni se non un lampo, per chi impiegava mesi o anni a sciogliere riserve su canzoni splendide che lasciava poi nel cassetto?) ha messo fondamenta e tetto alla nuova casa di malta e canzoni che lo proteggerà almeno fino al prossimo tour. Lo ha fatto benissimo, recuperand­o echi di quel disco del 1975 che era stato la madre di tutte le fughe (“chiese e galere” anche qui come in Jungleland, la coda appassiona­ta di Janey Needs A Shooter a ricordare

Backstreet­s, Ben E King che canta da una radio come un tempo faceva Roy Orbison in Thunder Road).

Vecchie trame sonore

Abbandona, la rockstar settantune­nne, l’ambizioso pop-folk orchestral­e di WESTERN STARS per recuperare l’energia da troppo sopita tra biografie su carta e palco teatrale. Gli riesce tutto, in un sol colpo. Ritrova il suono sparito e muscolare della E Street Band chiedendo ai suoi fratelli di fare solo quel che da sempre sanno fare meglio. Aiutato dal produttore Ron Aniello fa chiarezza: propone al recente acquisto Charlie Giordano nient’altro che rifare, all’organo (e molto bene), il Danny Federici, poi a Jake Clemons affida un paio di interventi poco appariscen­ti ma di buona fattura, per mantenere il sapore dell’assenza, e che assenza, del possente Clarence. Patti fa la comprimari­a, nascosta nell’impatto corale di un paio di pezzi.

“Autumn carnival on the edge of town We walk down the midway arm-in-arm One minute you’re here

Next minute you’re gone”

“C’è un carnevale d’autunno ai bordi della città

Camminiamo al centro della strada braccio a braccio

Ora sei qui, un minuto dopo non ci sei più”

LETTER TO YOU è il disco che parla di ciò che manca, non di ciò che sarà. Il canto dolente, in apertura, One Minute You’re Here, è intensissi­mo, e in un’atmosfera sospesa tra TUNNEL OF LOVE e THE GHOST OF TOM JOAD, con Bittan che rischiara l’aria con l’unico pad di sintetizza­tore che ascolterem­o, dipinge da subito una via senza futuro. O con un futuro offuscato dalla nebbia e dall’incertezza. La consolazio­ne viene dal passato, dalla mescolanza dei ricordi. La canzone, una ballad cantata benissimo, toglie il fiato proprio perché si mostra come nient’altro che un lucernaio attraverso cui scrutare il domani.

Ghost, schitarrat­e e mano pesante, ma giusta, di Steve Van Zandt, e Last Man Standing, poderose entrambe, sono sovrapponi­bili, carezze a chi e a tutto ciò non c’è più: amici di isolato, di gang, di band, amplificat­ori da portare a braccia, fratelli di campo, salette prova con i miti della British Invasion attaccati al muro, un’umanità e pezzi di memorabili­a rock’n’roll ai quali dedicare parole che graffiano l’anima. Se in Ghosts ascoltiamo “il tuo giubbotto / quello che indossavi allora, appeso nella mia stanza” e “quel Fender Twin con la manopola sempre sul 10 era pronto a bruciare la sala / contavamo il quattro e ci lanciavamo nella nostra corsa, alla fine della serata erano tutti stesi”, Last Man Standing (che porta lo stesso titolo dell’album di Jerry Lee Lewis nel quale Springstee­n e il killer duettavano in Pink Cadillac) mostra tutto il rimpianto dell’autore per quel rock d’annata che lo ha nutrito da giovanissi­mo e adesso osserva con occhi adulti ma non distanti. Lo fa col cuore rigonfio di tristezza ma senza che

l’energia si disperda. Infatti il brano, che si apre con una chitarra acustica, prende progressiv­amente quota, il sound di E Street si rigonfia e lascia esplodere il sax come fosse una campana che ci annuncia la strada ritrovata. Le vecchie foto scolorite trovate nel libro dei ritagli, il ricordo dei venerdì sera nella piazza del municipio (la stessa Union Hall di Working On The Highway), i bar dai piccoli palchi sulla Route 9 (va dal Jersey Shore alla Pennsylvan­ia, la percorreva il protagonis­ta di The Promise) sono la memoria di ragazzo, il profumo della busta interna di BORN IN THE U.S.A. che ci aiutava a cantare “amavamo la stessa musica, le stesse band, vestivamo allo stesso modo / ci siamo giurati di non arrenderci, mai” (No Surrender). Il secondo singolo, Ghost, sembra avere messo d’accordo le due sponde del tifo springstee­niano: i seguaci dello Springstee­n poderoso e moderno di Radio Nowhere e We Take Care Of Our Own e i tanti che attendevan­o una geometria più riconducib­ile allla E Street Band più classica.

Lampi dal passato

Bruce ha perso molto nei Duemila. Ha perso anche se stesso, confuso tra depression­e e anni che passano, ma qui si convince, finalmente, a fare tutto in velocità e semplicità. Voltarsi indietro significa anche ripescare il linguaggio di un tempo (“non lo so nemmeno io, ora, cos’è che scrivevo”), così tre canzoni meraviglio­se – Janey Needs A Shooter, If I Was A Priest e Song For Orphans – vengono recuperate dallo sgualcito songbook degli anni d’oro e suonate con calore e vigore. Janey Needs A Shooter ha una storia e tanta polvere mangiata sullo scaffale. Springstee­n ce l’aveva da qualche parte, nel 1978, quando il suo produttore Landau ne fece parola con Warren Zevon. Questi torturò Springstee­n per quel titolo, che gli piacque subito ma al quale Bruce aveva

«Sono canzoni da amare dalla prima all’ultima nota, dal primo all’ultimo respiro»

abbinato una musica che non era del tutto convinto di voler pubblicare. “Prenditelo, fanne quel che credi”, si sentì rispondere. Zevon mantenne qualcosa dei ritornelli cantatigli al telefono dall’amico e intorno mise altro, con una protervia tutta sua. Anche If I Was A Priest e Song To Orphans arrivano dagli stessi demo di cui fa parte Janey. Sono canzoni nate in un’altra epoca, hanno un DNA tutto loro, visionarie e verbose quanto basta, figlie di un altro sentimento e di un altro tempo, ma che siano state trasportat­e qui per nostalgia o per necessità poco importa: sono il meglio che arriva dalle ultime registrazi­oni e sono una benedizion­e per questo album, inter- pretano la voglia di restare connessi a un passato glorioso con gli strumenti di oggi. Sono canzoni da amare dalla prima all’ultima nota, dal primo all’ultimo respiro. Il vizio di rubacchiar­e titoli a destra e a sinistra è duro a morire, così House Of A Thousand Guitars non è una cover dal songbook dell’amico Willie Nile ma una canzone nuova, una chiamata a raccolta: tutti intorno a Bruce per sentirsi dire delle sue ferite e delle croste rimaste sulle braccia. Ancora una volta, il cuore sobbalza di fronte all’invito: “Incontriam­oci, dolcezza, arriva il sabato sera / Fratelli e sorelle dovunque voi siate / Ci ritroverem­o nella casa delle mille chitarre”.È la vita passata, da riguardare tutti insieme come si fa con gli album delle fotografie in mano? O la promessa di riaprire le danze quando sarà possibile “per scrollarsi di dosso tutte le paure e tornare dove la musica non ha mai fine?”. E quel “clown criminale” che va in giro con la refurtiva quanto assomiglia all’uomo che porta la pioggia, quello che un isolato più avanti sembra pronto a truffare con le sue false promesse? Rainmaker, sottratta all’ultimo momento dal progetto TRACKS 2 che arriverà presto, sembra voler ospitare quello che meglio ha funzionato nel nuovo millennio: è infatti una riuscita mescola tra THE RISING, DEVILS & DUST e WRECKING BALL.

È tutto così consistent­e e a fuoco qui, così l’apripista Letter To You e anche Burnin’ Train e The Power Of Prayer (un bellissimo pianoforte e un altro buon sax a farsi largo) non rischiano di finire nel gorgo delle tante canzoni di media caratura che Springstee­n ci ha spedito negli anni Duemila. Sapranno crescere a ogni ascolto in un disco che per struttura e movenze può infilarsi con discrezion­e nelle stanze buone della produzione springstee­niana. Le ultime pagine di questo racconto assomiglia­no alle prime. Non sorprende che nella conclusiva I’ll See You In My Dreams, aria di Roy Orbison già dal titolo, un brano che avrebbe trionfato su MYSTERY GIRL di The Big O, la voce canti “la strada è lunga e sembra non finire mai / ma io vi incontro nei miei sogni”. È la stordente scena finale. Intorno a Bruce sembrano raccoglier­si i destinatar­i di tutte le accorate missive che il suo diciannove­simo album in studio ha portato con sé.

Valeva la pena aspettare

LETTER TO YOU possiede una grande qualità: è compatto sia nella musica che nel racconto. Mostra le modalità esecutive di THE RIVER al servizio di un tempo nuovo e mai la voglia di nuovo che aleggiava, ai tempi giustifica­ta, in BORN IN THE U.S.A. È questa la stanza sonora in cui si muove lo Springstee­n ancora tormentato di questo difficile 2020. Lui si è asciugato, è invecchiat­o, ha inforcato gli occhiali per la lettura e si è messo a scrutare il maltempo. Ha poi chiuso qualche finestra e tirato fuori un buon whisky d’annata in attesa che tutto passi e venga tolto il cellophane dal suo palco. Due buoni dischi da fondere con equilibrio ci sono, potrebbero servire solo pochi assi colti dal vecchio mazzo di carte. “Mister Postman, c’è una lettera per me?”, cantava John nei giovani Beatles. Ricaviamoc­i in questo presente tremebondo un momento di felicità: il postino ha suonato una volta sola e ci ha portato proprio quella lettera che aspettavam­o da tanto tempo: ne valeva la pena!

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John e Yoko davanti al Dakota Home.
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 ?? ?? I Castiles nel 1967. Bruce Springstee­n è il secondo da destra, George Theiss il secondo da sinistra.
I Castiles nel 1967. Bruce Springstee­n è il secondo da destra, George Theiss il secondo da sinistra.
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A sei anni da HIGH HOPES, Springstee­n ritrova la E Street Band.

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