ROCK AND ROLL ALL NIGHT
Dopo quasi 50 anni, una manciata di dischi classici e più make-up di una sfilata di moda, i Kiss chiudono i giochi. «Classic Rock» incontra i Gods of Thunder sul loro jet privato, mentre iniziano l’ultimo tour della loro storia.
Iggy Pop si vanta di aver ucciso gli anni 60, ma in realtà a ficcare il paletto finale nel petto della decade “peace & love”, circa 46 anni fa, sono stati quattro tizi seminormali venuti direttamente dalle strade di New York: Gene Simmons, ex maestro di scuola elementare; Paul Stanley, tassista con un faccino a cuore; Peter Criss, macellaio part-time e batterista itinerante che aveva studiato col grande Gene Krupa; e Ace Frehley, teppistello che per tirare giù qualche soldo consegnava liquori in locali equivoci.
I quattro sciamarono da un appartamento da 40 dollari al mese al quarto piano di uno stabile nella Chinatown newyorchese, arrampicati sui loro zatteroni da 10 centimetri e strizzati nei loro costumi di pelle nera, con l’aspetto di quattro mostri usciti dagli inferi, riversando sul mondo sovrastante una mistura blasfema e totalmente maschia di sesso, ammiccamenti e volgarità a 110 decibel, titillando i sogni segreti di qualsiasi ragazzo li ascoltasse. Anche se col tempo il messaggio del gruppo è cambiato (diventando più attenti alle famiglie e rinunciando al turpiloquio nei concerti), seguitano ad attrarre legioni di fedeli arruolati nella Kiss Army – perfino adesso che hanno deciso di chiudere il gioco con l’ultimo tour, intitolato The End of the Road (slogan subito messo sotto copyright per impedirne l’uso a ogni altro gruppo in procinto di ritirarsi dalle scene. Buona fortuna…).
Finora sono previste 71 date nel Nord America, 26 in Europa e 8 in Oceania, con possibilità di estendere il tour probabilmente fino a metà 2020. Agli inizi, il gruppo era spinto da un’ambizione sfrenata, una volontà di ferro e un’etica lavorativa quasi ossessiva, ma musicalmente era appena all’ABC. Oggi non solo ha cambiato il volto alla storia della musica, dipingendolo di cerone bianco, ma ha creato una rivoluzione tutta sua, rimettendo la musica nelle mani della gente comune, tramutandola in una specie di manifesto populista a partire da dove si erano fermati i Grand Funk Railroad, strappando insomma il rock dai loft lussuosi, scompigliando i capelli curatissimi e stropicciando gli elegantissimi pantaloni di velluto a coste.
Prima dei Kiss, le rockstar sembravano esistere in un empireo lontano dai comuni mortali, respirando aria rarefatta e profumata, comprando e sfasciando Aston Martin, sorseggiando nettari che costavano come lo stipendio di un anno e raramente unendosi ai comuni mortali, a meno che non somigliassero a supermodelle o alle moglie dei Beatles. Per dirla tutta, le rockstar non erano come noialtri.
I Kiss invece sì. Erano leggermente ‘incompleti’. Un po’ ai margini, non i capitani della squadra di football con la
«Oggi, Gene ed io ci sentiamo molto più uniti. La guerra è finita, e tutto va bene. Abbiamo vinto» Paul Stanley
cheerleader bionda sotto braccio. Somigliavano più a quello che ti stava seduto accanto alle lezioni di matematica. Perché erano svegli. Abbastanza da capire i tempi in cui vivevano, e che era il momento di cambiare le cose.
“Era metà anni 70 e la gente ne aveva abbastanza degli hippie e di tutte le menate politiche. Voleva solo divertirsi”, spiegò Gene Simmons qualche anno fa. I primi tempi, Paul Stanley amava dire, “noi siamo i nostri fan”. E anche se non era del tutto vero, era bello sentirlo. Oggi ha un po’ cambiato registro: “I nostri fan magari non sono come noi, ma possono sentirsi come noi.
Credo che a modo nostro abbiamo motivato le persone perché a modo loro anche loro diventassero dei Kiss. Magari diventando uno scrittore, un cantante country, o magari un avvocato. Fai tu”. Forse il punto è che i Kiss sono sempre stati più di un semplice gruppo. Sono stati un atteggiamento. Un luogo dove sentirsi diversi era apprezzato. Dove i ragazzi erano uomini e le ragazze tutte groupie, e dove nessuno doveva mai abbassare il volume.
C’è qualcosa di contagioso nell’idea che chiunque possa fare ciò che hanno fatto i Kiss. I Kiss non erano sfacciatamente belli, ricchi, colti o ricchi di talento, non erano avvantaggiati né studenti artistoidi come le loro controparti UK, ma il messaggio che davano implicitamente era che con le giuste motivazioni e le giuste circostanze chiunque poteva diventare una rockstar. Volendo però essere sinceri, il loro primo obiettivo non era rafforzare l’autostima.
No. Era diventare più famosi dei New York Dolls. “Sì, è vero”, conferma Simmons. “Ricordo che Paul e io andammo a vedere i Dolls suonare in un locale a New York City. Era proprio all’inizio. Debuttarono sei mesi prima di noi. Paul e io eravamo in fondo alla sala con i nostri capelli belli lunghi e cerca- vamo di sembrare fichi, ma nessuno ci conosceva. “I Dolls salirono sul palco e ci dicemmo: ‘Wow! Sembrano vere rockstar’. Poi iniziarono a suonare.
Ci guardammo e io ho detto a lui, o lui a me: ‘Li facciamo secchi’. Avevamo la voglia negli occhi e il sangue che ci colava dalla bocca mentre giuravamo a noi stessi: ‘Li distruggeremo!’”. “Avevamo l’atteggiamento giusto, e anche il resto, ma non sapevano suonare né cantare. Niente armonie, la chitarra faceva schifo.
Ma cazzo se si presentavano bene. Per cui, i Kiss furono progettati pensando: ‘Creiamo il gruppo che non abbiamo mai visto dal vivo’”. E così fecero, creando un gruppo che nemmeno nessun altro aveva mai visto dal vivo. A parte forse Alice Cooper, che però era ormai un nome affermato. “Sono un buon gruppo. Gli serve solo qualche trucchetto”, disse dei Kiss – un po’ seccamente – Alice nel 1974. I Kiss presero sul serio il suggerimento e aggiunsero altri fuochi d’artificio e lampi, fuoco e fiamme dalla bocca e sangue (finto) a secchiate.
Frehley aveva una chitarra che sputava fiamme e Stanley fu uno dei primi artisti a lanciarsi in mezzo al pubblico – con il cerone che sporcava tutti, cosa che presto diventò un segno di onore tra i fan. Il pubblico li adorava, la critica no.
Nel 1975 «Rolling Stone» li nominò la fuffa dell’anno, e schiere infinite di recensori li definirono “derivativi”, “noiosi”, “semplicistici”, al massimo uno scherzo, un gruppo che mirava al minimo comune denominatore artistico per solleticare gli istinti più bassi del pubblico. Fu solo nel 2014 che i Kiss furono ammessi nella Rock and Roll Hall of Fame, e anche allora solo perché le votazioni furono finalmente aperte anche ai fan.
Per converso, sono sempre stati geniali nell’arte dell’autopromozione. Simmons è un esperto nel reinventarsi, essendo emigrato da Israele a New York all’età di otto anni, sotto il nome di Chaim Witz. Diventò poi Gene Klein e iniziò a trasformarsi in un perfetto ragazzo USA. La sua psiche era talmente piena di zone d’ombra e luoghi pericolosi che diventare il God of Thunder fu un gioco da ragazzi. Paul Stanley non è stato da meno: “Ero un ragazzino ciccione e sbeffeggiato da tutti che si mascherava da frontman sboccato e belloccio di un gruppo.
E in qualche modo lo sono diventato per davvero”, commenta oggi, che a 67 anni ne dimostra 20 di meno. “Siamo tutti riusciti a scoprire chi eravamo davvero”. Questa consapevolezza di sé e la voglia di ispirare il prossimo vennero dopo – probabilmente quando nel 2014 scrisse la sua autobiografia Dietro la maschera –