LA BALLATA DEI MOTT THE HOOPLE
Nel 1973, i Mott uscirono dall’ombra di David Bowie e crearono il loro album migliore. Ma la loro annata d’oro non sarebbe stata priva di vittime
19 aprile 1973. L’ovattata sala di ascolto degli AIR Studio è un mondo a parte rispetto al trambusto del sottostante Oxford Circus. C’è trepidazione mentre i
Mott The Hoople si riuniscono ad ascoltare per la prima volta il loro sesto album, concluso di recente.
Il batterista Dale ‘Buffin’ Griffin, il bassista Pete Overend Watts e il chitarrista
Mick Ralphs sono presenti e sorridono nervosamente, mentre si preparano per il grande momento. Finalmente, Ian Hunter fa il suo ingresso, con gli onnipresenti occhiali da sole a coprirgli gli occhi, e fa un cenno ai suoi compagni. I convenevoli sono al minimo mentre il tecnico Bill Price fa partire il master. È un momento cruciale per i Mott. Con questo disco, la band ha fatto una scommessa avventata. Non solo hanno da poco perso
Verden ‘Phally’ Allen, maestro dell’organo
Hammond, ma hanno anche preso le distanze da David Bowie, l’uomo che aveva salvato la loro carriera, per auto-prodursi. È il momento di scoprire se la scommessa è stata vinta. Io sono presente in quanto presidente del
Mott the Hoople Sea Divers, il fan club della band da me fondato. I membri del club stanno aspettando quest’album col fiato sospeso, e io sono a qui per dar loro un’esclusiva mondiale. Nonostante tutto ciò che c’è in ballo, una certa aria trionfale precede l’ascolto. Pete mi dice che l’album sarà chiamato “Mott” e che questo sarà anche il nuovo nome del gruppo. «Ci sentiamo come una nuova band adesso», annuncia.
Mentre l’intro di pianoforte di “All The Way From Memphis” riempie la stanza, è facile accorgersi che anche il sound è nuovo. Ancora prima che entri la voce di Hunter, iniziano le pacche sulle spalle e tutti sorridono in un misto di felicità, sollievo e forse un po’ di incredulità. I Mott sanno di avercela fatta. Hanno prodotto il miglior album della loro turbolenta carriera e hanno finalmente realizzato tutto il potenziale che il produttore Guy Stevens aveva notato nell’estate del 1969 quando li aveva formati e allevati, dando loro un nome. Nonostante fossero da tempo una delle migliori live band britanniche, le vendite dei dischi non avevano mai espresso appieno il loro potenziale. Questo avrebbe potuto cambiare tutto. Quarant’anni più tardi, “Mott” è una delle pietre miliari degli anni Settanta con la sua combinazione di rock duri e puri e ballate autobiografiche. Grazie al mix di duro lavoro e profonda fiducia in se stessi, e nonostante i disaccordi interni e le pressioni, i Mott avevano raggiunto il punto più alto della loro carriera: il 1973 sarebbe stato il loro anno d’oro, anche se tutto sarebbe andato all’aria in soli 18 mesi. Questo però faceva ancora parte del futuro. In quel pomeriggio di aprile, una volta cessata anche l’ultima vibrazione proveniente dagli enormi speaker, c’è un attimo di silenzio prima che la tranquillità venga rotta da un’eruzione di incitamenti e strette di mano. Chiedo ad Ian Hunter cosa stia pensando, e in
modo calmo mi fornisce lo stesso verdetto che avrebbe poi espresso durante le prime conferenze stampa: «È una cazzo di meraviglia».
L’inizio sembra la fine
La prima volta che il nome Mott The Hoople comparve stampato fu a metà del 1969 in una copia di ZigZag, il primo mensile musicale britannico serio. Pete Frame, l’uomo dietro
ZigZag e sostenitore entusiasta della band, spiegò come Guy Stevens avesse messo insieme un nuovo gruppo formato dai Silence e dall’autore senza successo Ian Hunter. Il produttore considerava il gruppo come un incrocio tra il rock’n’roll degli Stones e le ballate à la Dylan. Stevens provò a fissare la propria visione nel primo album della band. pubblicato dalla Island verso la fine del 1969. Ma era sul palco che i Mott prendevano realmente vita. In un’epoca in cui andavano di moda pastrani trasandati e assolo di batteria da 25 minuti, i Mott tornavano allo spirito originale del rock’n’roll con i loro modi ribelli, moderati dalle confessioni sensibili, ma allo stesso tempo dure, di Hunter.
L’approccio proto-punk e l’umiltà della band irritavano la stampa, ma allo stesso tempo avevano attirato un appassionato seguito, che la band aveva soprannominato ‘the Mott lot’ (quelli dei Mott, ndt). Questa cerchia di devoti era formata per la maggior parte da ragazzini dalla classe operaia (uno dei quali, di nome Mick Jones, avrebbe poi formato i
The Clash). Nel 1971, questi fan finirono sui giornali quando i Mott furono banditi dalla
Royal Albert Hall dopo essere stati accusati di aver causato una rissa durante un concerto particolarmente movimentato per il loro secondo anniversario.
Ma mentre i Mott costituivano un esempio da seguire per legioni di teenager, la band stessa era sempre più frustata dal fatto che i loro album non avessero venduto abbastanza, a partire da quello di debutto, seguito dallo schizofrenico “Mad Shadows” del 1970 e successivamente da “Wildlife”, caratterizzato da un’impronta country, e dal frenetico e nervoso “Brain Capers”, entrambi usciti nel 1971.
«Facevi il tutto esaurito nei posti più grandi del paese e tuttavia i dischi non andavano bene», racconta Hunter. «La cosa non può durare a lungo. Gli album devono avere successo». Qualcosa sarebbe dovuto accadere. E fu così nel marzo del 1972. In seguito a un’invasione di palco durante un concerto piuttosto triste in un distributore di benzina in disuso a Zurigo, i Mott The Hoople decisero di sciogliersi. Non avevano ancora idea che questa decisione avrebbe inavvertitamente messo in moto una serie di eventi che avrebbero portato a “Mott”.
Grazie Ziggy!
Il salvatore della band sarebbe stato David Bowie. Il cantante aveva già iniziato il conto alla rovescia per il lancio di Ziggy Stardust, ma non era ancora diventato una vera star del pop, come sarebbe avvenuto solo un mese più tardi, con l’uscita del singolo “Starman”. Già grande fan di “Brain Capers”, Bowie venne a conoscenza della fine della band quando Overend Watts andò a chiedergli un lavoro. Scioccato dall’accaduto, decise di fare in modo che la band rimanesse assieme e offrì loro una delle sue canzoni, “Suffragette City”. Quando la band la scartò in quanto poco adatta alla radio, Bowie terminò in fretta un’altra canzone sulla quale stava lavorando e la presentò al gruppo: era “All The Young Dudes”. «Ce la suonò con una chitarra acustica nell’ufficio del suo manager», ricorda Hunter.
«Capii subito che sarebbe stata una hit. Un brivido mi scese lungo la schiena».
Prodotta da Bowie, “All The Young Dudes” uscì come singolo in luglio, raggiungendo la posizione n. 3 e portando finalmente una hit per gli ora rinvigoriti Mott. Nonostante l’album, anch’esso intitolato “All The Young Dudes”, contenesse la sua parte di buone canzoni, la produzione di Bowie aveva neutralizzato la potenza dei Mott, specialmente al confronti di un disco come “Brain Capers”. L’album si fermò alla posizione n° 21, facendo comunque dei Mott i protagonisti delle classifiche per la prima volta.
Sin da quando Bowie li aveva avvicinati con “Dudes”, lui e il suo manager, Tony Defries, avevano corteggiato la band con l’ottica di farli firmare con la MainMan, di cui Defries stesso era titolare. Su richiesta di Bowie, Defries acquistò la band dalla Island Records e li aiutò ad ottenere un contratto con la CBS. I Mott si trovarono così a essere parte di quel circo esotico che era la MainMan, assieme a Lou Reed e Iggy Pop. «Facevamo parte di quella cerchia», ricorda Mick Ralphs. «C’era una gran varietà di gente coinvolta, bisessuali e pseudo-artistoidi con i quali non avevamo mai avuto a che fare prima di allora. Era interessante, diverso».
Fu proprio in questo periodo che diedi inizio al loro fan club ufficiale, Mott The Hoople Sea Divers, con riferimento all’ultima traccia su “All The Young Dudes”.
«Bowie mi disse: “Devi assumere il controllo”. Lo dissi alla band e Ralphs rispose: “Col cazzo”» Ian Hunter