Born In The U.S.A. Bruce chiama, l’America risponde
Dopo le canzoni crepuscolari e scure di NEBRASKA, a spaccare gli anni 80 ci pensa un album che è il suo esatto opposto: un tuono fragoroso, un lampo accecante quanto il neon appeso al soffitto della cantina del Boss e della sua band.
Appena due anni prima, il video di Atlantic City, da NEBRASKA, rigoroso bianco e nero senza alcuna immagine del cantante al suo interno, era stato un segnale di precisa resistenza alle nuove tendenze ben sostenute da MTV. Con Born In The U.S.A., l’album del 1984, le cose cambiano e non di poco: il suono più muscolare e moderno, il tono fisico da body builder guadagnato con ore di palestra, la necessità di rivolgersi a un pubblico più ampio per far rifiatare la casa discografica dopo l’oscuro disco del 1982, sono le forze che, tutte insieme, proiettano Springsteen nella dimensione, per lui fino ad allora sconosciuta, di pop star.
Dancing In The Dark, primo di sei singoli tratti dal disco, nelle mani dell’esperto regista Brian De Palma diventa un videoclip ammiccante che ottiene subito un grande successo facendo del 45 giri il singolo che Jon Landau cercava da tempo per il suo artista, che ha in mano un disco in grado di portare clamore e vendite come mai avvenuto prima. Così come era accaduto per The River, il tour parte quasi in contemporanea con la pubblicazione dell’album, che così riceve da subito la spinta utile a farsi largo in una classifica non facile, fino a quel momento, per un artista come Springsteen. Come i cani sciolti di Nebraska, il veterano del Vietnam che urla di rabbia e risentimento
nella title track è la voce di un Paese che arranca tra mille difficoltà e che mai ha dimenticato le atrocità viste in terra d’Oriente. Il reinserimento è stato per lui difficile così come problematico è per altri personaggi che popolano queste canzoni
pagare l’affitto di casa o riaversi dalle batoste della vita. Forte di questi e altri contenuti, Springsteen resta il credibile portavoce della classe operaia americana, anche se smussa alcuni angoli del proprio suono. Le tastiere di Bittan, più moderne, conferiscono alle canzoni quelle caratteristiche di attualità che prima mancavano. Ora la E Street Band, che ha perduto Steve Van Zandt fattosi Little Steven e partito in tour per conto proprio sembra più vicina a un sentire «medio». A dimostrarlo, mentre Nils Lofgren è diventato il nuovo chitarrista, saranno le folle oceaniche raccolte tra arene e stadi in America, Europa, Australia e Giappone, Paesi toccati tra il 1984 e il 1985 mentre Springsteen convola a nozze con la modella Julianne Phillips e il disco si avvicina lentamente ai record di vendita di campioni delle charts americane come The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, Rumours dei Fleetwood Mac e Thriller di Michael Jackson.
IL DISCO, NEL DETTAGLIO
Se NEBRASKA, che era dunque stato crepuscolare, scuro, con solo i fari anteriori di una Chevrolet Deluxe a indicare la strada, BORN IN THE U.S.A. sembra ancora oggi il suo opposto. Le sue canzoni, piombate nel mezzo dei rinnovatori anni Ottanta, sono un lampo accecante, accecante quanto un neon incollato al soffitto della cantina in cui Bruce Springsteen è ritratto insieme alla E Street Band. Come in alcuni scatti
«Per quanto i personaggi qui aspirino malinconicamente a una ricompensa del Sogno americano infranto, l’esuberante voce di Springsteen e la pienezza della musica ci annunciano che non hanno per nulla rinunciato a sperare in qualcosa di meglio»
«Rolling Stone»
«L’oscurità ai margini di un cuore rock’n’roll. Non puoi accendere un fuoco senza una scintilla, ma la fiamma è la stessa che incendiò Cadillac Ranch, o il capannone del convegno notturno degli uomini senza donne. Tutti hanno un cuore affamato, e Bruce – grazie al cielo – non è ancora disposto ad accontentarsi di un fast food. Una danza a stomaco vuoto, sul filo dei nervi, a molte miglia dal confine del Nebraska»
Stefano Mannucci, «Rockstar», giugno 1984
inseriti in THE RIVER, il gruppo protegge il suo Boss davanti all’obbiettivo. In sala di registrazione tutto fila liscio e la coesione tra i musicisti è altissima, dunque favorevole alla produzione di un suono che deve ancorarsi al passato ma che i tempi suggeriscono dover essere in qualcosa differente. Dalla fiera e roboante canzone che dà il titolo all’album al sintetizzatore un po’ glaciale che avvolge la conclusiva My Hometown, tutto mostra uno Springsteen diverso da quello che due anni prima aveva sentito la necessità di pubblicare materiale in solitudine. Ma la potenza di questo disco non deve ingannare: sarebbe sbagliato leggerla come la conseguenza di un disco silenzioso come NEBRASKA, perché molto di quello che si ascolta in BORN IN THE U.S.A. era stato messo su nastro prima che si desse il via all’idea di un disco acustico e dai toni mesti. Molti dei pezzi qui presenti sono figli del post THE RIVER; è dunque ipotizzabile che il loro autore li abbia solo congelati per riproporli in seguito. La title track e Downbound Train, di cui si conosceranno più avanti (TRACKS e bootlegs) versioni acustiche e minimali pensate per NEBRASKA, vengono qui proposte più accessibili al grande pubblico: la batteria prepara già i suoni da stadio, il vecchio impasto pianoforte-organo viene abbandonato, rimpiazzato da un dialogo tra il sintetizzatore e il glockenspiel, funzionale ma un po’ freddo, che certo non scalda il popolo forgiato da THE RIVER. Questo non toglie meriti ai musicisti di Bruce, che anzi si mostrano attenti all’attualizzazione del suono dei loro strumenti. Sono la qualità del songwriting (mondo operaio, problemi di coppia, solitudine, straniamento post Vietnam), il calore e la comunicativa della voce del capo e i pochi assolo di Clemons a garantire la continuità. Tra le due facciate e lo spazio concesso dai 45 giri con B-side inedite, accade quel che mai era accaduto nei sei dischi precedenti: oltre a una produzione musicale più accattivante del solito, c’è un’apertura inconsueta alla visual art, all’estetica di metà anni Ottanta, a certe concessioni fino a
«Ascoltando Dancing In The Dark, decifrando simbolicamente la copertina di BORN IN THE U.S.A. il fan ha la dolorosa sensazione che qualcosa sia cambiato e oggi Springsteen sia disposto ad accondiscendere al commercio e al mito, a tradire la sua purezza»
Riccardo Bertoncelli, «Fare Musica», luglio/agosto 1984
quel momento lontane dal mondo di Bruce Springsteen. Vengono prodotti dei picture disc e anche dei sagomati (gli shaped disc) per edizioni a tiratura limitata dei singoli. Sulla copertina del lavoro principale è il fondoschiena dell’autore ad accoglierci, fasciato da un paio di jeans Levis su strisce bianche e rosse. L’immagine generale – videoclip di Dancing In The Dark incluso – è indubbiamente chiassosa, non casuale, pensata per colpire. Il tutto fa molto America, e l’America risponde a quel disegno imprevedibile: Springsteen cerca il successo pieno, quello con molti zeri, ambisce – non senza meriti – a diventare “l’uomo in vetta”. Nulla di esagerato, niente di paragonabile alle metal band di quegli anni, il suo è solo rock per la prima volta imparentato col pop, ma qualcosa sembra essersi rotto, al di là degli importantissimi risultati commerciali e della bellezza di molti momenti del disco, un lavoro tutt’altro che lontano dalla sensibilità del rocker americano. Il tour celebratissimo e multimilionario parla anch’esso di un’epica tutta rock’n’roll, il miglior viatico al timore di aver smarrito per strada un sicuro protagonista. I concerti aggiungono anche visioni più sottili, meno urlate, che si traducono in nuove canzoni che il pubblico conosce dal palco, composizioni molto interessanti come Sugarland e Man At The Top. A queste va sommata anche Shut Out The Light, descrizione del non facile ritorno a casa di un reduce dal Vietman. Vista la forza anche live che questa nuova musica sa esprimere e grazie anche alla indiscutibile qualità del songwriting, il pubblico fa subito pace con questo momento dell’artista e con l’aria di novità che il nuovo disco ha portato con sé. Giunge anche l’improvvisa
«Nei migliori episodi dell’album assistiamo a una miscela di dettagli cinematici e a un grande senso di America che avevamo smarrito dai tempi in cui John Prine e The Band realizzavano i loro primi dischi»
«Los Angeles Times», 1982
partecipazione al progetto benefico We Are The World a proiettare tra le grandissime star questo ragazzo ancora semplice, che si presenta al cospetto di superstar del pop come Quincy Jones, Stevie Wonder e Diana Ross lasciando parcheggiata sul marciapiede una macchina presa a noleggio, sfiorata dalle tante limousine da cui scendono i colleghi. È uno Springsteen in fase di transizione, quello osservato qui, sta diventando più popolare e acclamato di molti suoi idoli, anche di quelli che erano già consumati professionisti quando lui iniziava, ma pur vantando lavori importanti e una certa presa di coscienza nei confronti della situazione politica del suo Paese, non è ancora l’artista che vedremo nel decennio successivo. Alcune composizioni datate 1984-1985 suonano addirittura un po’ ingenue, se paragonate al livello letterario toccato da molti testi in arrivo. A distanza di trent’anni, BORN IN THE U.S.A. suona ancora fresco come allora, cantabile come nessun altro prodotto del musicista di Freehold, generoso com’è di riff, cori, frasi a effetto e slogan destinati a rimanere. Molte canzoni, anche le più disimpegnate come I’m Goin’ Down e Pink Cadillac (retro di Dancing In The Dark) erano belle allora e funzionano benissimo anche oggi, quando invece il tempo passato potrebbe essere con loro implacabile.