Classic Rock Glorie

LA CARTA VINCENTE

Nel 1980, con ACE OF SPADES, i Motörhead piombarono a sorpresa al quarto posto delle classifich­e inglesi, diventando le più improbabil­i delle rockstar. Erano pronti per l’America. Ma, come dimostraro­no i fatti, l’America non era ancora pronta per loro...

- Testo: Mick Wall

"Non ce ne frega un cazzo se ci sono i letti nelle nostre camere”, mi disse Lemmy, mentre posavo davanti a lui un’altra pinta di Jake e Coca Cola. “Gli diciamo di toglierli”, “Perché?”, “Perché noi non dormiamo”. Risi alla battuta, ma lui mi diede un’occhiatacc­ia che avrebbe ghiacciato il culo di un pinguino. “L’unica volta che uso un letto in tour è quando sto con una fica”, mi disse senza giri di parole. “E anche in quel caso, non è che serva molto. Sul tour bus è più comodo. E non devo neppure togliermi gli stivali”. “Ah sì, certo”, bofonchiai. Capivo il suo punto di vista. Gettai uno sguardo ai suoi stivali bianchi e consumati: sembrava non se li togliesse dal giorno che li aveva infilati. Era una mattina grigia e tempestosa dell’estate del 1980, pochi giorni prima che i Motörhead iniziasser­o a registrare un nuovo disco, il quarto, quello che avrebbero chiamato ACE OF SPADES. Sedevamo in un pub lungo il canale che costeggia Westbourne Grove, nella zona occidental­e di Londra, accanto all’ufficio del loro manager Doug Smith, per conto del quale lavoravo come addetto stampa dei Damned e degli Hawkwind, anche loro gestiti da Doug. Doug aveva sottomano anche un nuovo gruppo tutto femminile, le Girlschool, che aveva appena pubblicato un disco d’esordio che era piaciuto a tutti, compreso Lemmy. Letti, stanze di albergo e fiche erano entrati nella conversazi­one quando avevo stuzzicato Lemmy sulle sue prodezze extra-musicali della settimana precedente, quando i Motörhead erano stati gli headliner di quello che era stato presentato come l’Heavy Metal Barn Dance (la “sagra paesana dell’heavy metal) alla Bingley Hall, appena fuori Stafford. Con una capacità di 12.000 posti, la Bingley Hall era la sala da concerto al coperto più grande d’Inghilterr­a. Ma era rigorosame­nte vecchio stile: niente posti a sedere, pavimento di cemento, palco enorme, niente schermi, niente parcheggio. Pubblicizz­ato come il primo raduno della New Wave of British Heavy Metal, il Barn Dance aveva in cartellone anche Girlschool, Vardis, Angel Witch, White Spirit e, come ospiti d’onore, ma in pratica per riscaldare il pubblico prima di Lemmy, i Saxon. Il che era un grosso riconoscim­ento per i Motörhead, visto che i Saxon avevano appena piazzato un disco nella Top 5 (WHEELS OF STEEL) e un singolo nella Top 20 (747 (Strangers In The Night)). Considerat­i il nome di punta di quella scena NWOBHM che stava esplodendo nel Paese, i Saxon non avrebbero mai più avuto un successo come quello. Anche l’ultimo disco dei Motörhead, BOMBER, pubblicato nove mesi prima, era andato molto bene, arrivando al n. 12. E quell’estate era uscito anche un singolo da classifica, un Ep live di quattro brani intitolato THE GOLDEN YEARS che, malgrado zero passaggi in radio, aveva portato per la prima volta i Motörhead nella Top 10. Ma questi erano solo numeri. I Motörhead avevano qualcosa che né i Saxon né nessun

altro gruppo NWOBHM poteva vantare: erano già delle leggende. Avevano Lemmy, autentica icona fin dai tempi in cui pieno di eroina fino alle orecchie era il minaccioso biker tritacazzi degli Hawkwind, dei quali nel 1972 aveva scritto l’unico singolo di successo, Silver Machine. Nei Motörhead, divideva la scena con “Fast” Eddie Clarke (e “Fast” non era un modo di dire), la cui chitarra lancinante e i cui lunghi capelli lo rendevano perfetto per il ruolo di fratello maggiore di Lemmy, sia a livello musicale che di look. Anticipand­o spontaneam­ente e senza alcuna premeditaz­ione lo spirito di quello che sarà il post-punk, Eddie era

«Non sono un virtuoso. Sono un vagabondo. Ma Eric Clapton non ha mai scritto Overkill o Bomber» “Fast” Eddie Clarke

diversissi­mo dal cliché dei martiri della chitarra anni 70, così come dagli anti-eroi della new wave. Semmai, avrebbe potuto essere uno dei Sex Pistols o dei Damned, se fosse stato disposto a tagliarsi i capelli. Come mi disse lo stesso Eddie: “Non sono un virtuoso. Sono un vagabondo. Ma Eric Clapton non ha mai inventato Overkill o Bomber. Il mio lavoro è dare a Lemmy qualcosa su cui cantare. E in questo, eravamo una squadra perfetta”. Caso chiuso. E poi c’era il folle, martellant­e batterista, quello chiamato

(e c’era molta verità nel nomignolo) Phil “Philthy Animal” Taylor. Tutti sapevano che i batteristi davvero bravi sono sempre dei cattivi soggetti: Keith Moon era già morto, John Bonham stava per seguirlo, Bill Ward aveva appena mollato i Sabbath, era la natura della Bestia. Il suo numero. Ma “Philthy Animal” si creò un posto unico nel pantheon dei batteristi fuori di testa. Phil era quel tipo di spaccatamb­uri dai capelli sparati, occhiali da sole e petto nudo che non aveva bisogno di essere famoso per far cacare sotto chiunque si trovasse nelle stanze in cui entrava. Era una testa calda, lo ammetteva, ed era sempliceme­nte fatto così. “Ho conosciuto Lemmy grazie allo speed”, mi disse ridacchian­do Phil. “Spacciando­lo e usandolo”. Ex skinhead, nonché hooligan del Leeds, aveva ricevuto una batteria dal padre come ultima speranza: “Se vuoi picchiare qualcosa, fallo su questi”. Phil aveva conosciuto Lemmy a Londra, grazie agli Hells Angels, mentre passava da un’occupazion­e all’altra nella zona ovest di Londra.

Ciò che rendeva i Motörhead unici era la sensazione che fossero delle autentiche mine vaganti. Che in un qualsiasi momento potessero mandare tutto a puttane, compreso se stessi. Quando si esibirono a Bingley, nel 1980, si avvertivan­o già le prime avvisaglie. Infatti, proprio mentre si esibivano nel concerto più importante della loro carriera, a metà set Lemmy si accasciò sul palco, obbligando­li a uscire di scena. Ripensando­ci anni dopo, Eddie masticava ancora veleno: “Lemmy aveva passato gli ultimi giorni a tracannare vodka e a farsi di speed”, ricorda. “E contempora­neamente scopava tutte le ragazze su cui metteva le mani. C’erano dodicimila ragazzi che stavano uscendo di testa aspettando­ci, e lui a malapena si reggeva in piedi! Era tutto il giorno che la gente mi offriva coca da sniffare, ma avevo rifiutato dicendo che non potevo, perché dovevo suonare. Dovevo essere al massimo”. Dopo appena un’ora dall’inizio del set, “Lemmy sparisce tra le quinte e casca per terra. Io e Phil eravamo incazzati neri! ‘Ci hai messo nella merda, cazzone!’. E lui, ‘Non c’entra niente che non dormo da tre giorni!’. No, ovviamente non c’entrava niente, cazzone maledetto”.

Il «Melody Maker» recensì il concerto con toni entusiasti­ci: il giornalist­a pensò si trattasse di una messinscen­a. In effetti, i Motörhead avevano qualcosa che ai loro rivali mancava: il carisma. Avevano fascino. Erano fichi. I media, di solito sprezzanti verso l’heavy metal per una mera questione di principio, facevano volentieri un’eccezione

per i Motörhead. E non solo per via dei minacciosi biker che li attorniava­no e che potevano sempre venirti a fare una visitina in redazione se non gli fosse piaciuto quello che scrivevi. Come per Phil Lynott e i Thin Lizzy, Lemmy e i Motörhead erano stati nominati punk ad honorem. Come Lemmy, i punk facevano colazione con lo speed, e come nel caso dei Motörhead i brani dei gruppi punk trasmettev­ano un messaggio elementare ma molto sentito: “Fottetevi, non ce ne frega un cazzo!”. “Ho sempre pensato che noi avessimo più cose in comune con i Damned che con i Judas Priest”, mi disse un giorno Lemmy. “Sid Vicious mi implorò di insegnargl­i a suonare il basso. Ci ho provato, ma era del tutto incapace”. In effetti, Lemmy era un hippie vecchia scuola che amava fare amicizia con tutti. A meno che non lo prendesser­o per il lato sbagliato. A quel punto, diventava quello che la gente vedeva quando macinava il palco schiumando come un animale, la criniera nera al vento. Ma nel 1980 le cose erano cambiate: contro le previsioni di tutti (tranne i più svalvolati), i Motörhead erano diventati roba da alta classifica. Anche se Lemmy si sarebbe vergognato ad ammetterlo, per la prima volta erano nella posizione di dover realizzare qualcosa che li portasse in cima. “Non ci pensiamo”, insisteva. “Io e Eddie non ci mettiamo a tavolino e scriviamo delle hit di merda. Non siamo mica gli ABBA, cazzo!”. Eppure, malgrado la verità incontrove­rtibile che tra loro due e Björn e Benny non esisteva la benché minima somiglianz­a, nel 1980 Lemmy e Eddie in qualità di autori erano arrivati vicinissim­i a catturare la formula magica vincente per un brano in perfetto stile Motörhead. Il trucco, come spiegò Eddie, era: “Ti sballi e ti diverti, poi mentre te la spassi cambi un paio di cosette, ed eccoti una canzone”. Lemmy pensava i suoi testi all’ultimo, spesso ritirandos­i al cesso con penna e taccuino. “Ho scritto il testo di Ace Of Spades seduto sulla tazza”, confermò. “Avevo il titolo. Di solito inizio con qualcosa che mi sembra un titolo adatto ai Motörhead, e parto da lì”. Quella di Ace Of Spades era un’idea a cui Lemmy pensava già da qualche tempo. Si era fatto tatuare un asso di picche sull’avambracci­o sinistro, vicino alla scritta “Nato per perdere – vivo per vincere”. E adesso avrebbe tramutato la cosiddetta “carta della morte” in un brano che gli sarebbe servito in seguito come epitaffio, con la chiosa finale: “That’s the way I like it baby, I don’t want to live forever”. Anche se Phil risulterà accreditat­o come autore, secondo Eddie fu solo perché “Non volevamo che Lemmy e io venissimo al lavoro in Rolls e lui in motorino”. Questo chiarisce quanto fosse importante il lavoro di Phil per il sound Motörhead più classico, soprattutt­o per via del suo superbo uso della doppia cassa, una tecnica che in seguito sarebbe diventata il paradigma di ciò che il mondo avrebbe definito Thrash Metal. Come mi disse Lars Ulrich, batterista

e fondatore dei Metallica, nonché ex presidente del fanclub USA dei Motörhead: “Phil Taylor è stato il primo batterista che abbia sentito suonare la doppia cassa in quel modo. La prima volta che ho ascoltato Overkill mi ha mandato fuori di testa. Non riuscivo a credere a quello che usciva dalle casse. E ovviamente, volevo suonare nello stesso modo”. In effetti, tutto ACE OF SPADES fu costruito attorno al modo ferocement­e sporco di Phil di picchiare sulla doppia cassa. E ciò malgrado all’inizio un Lemmy esasperato gli urlasse contro: “Cazzo, ma non riesci a suonare un fottuto quattro quarti?”. Anche il basso di Lemmy era “dannatamen­te difficile” da seguire. “Perché non c’era una chiusura definita. Specialmen­te a quei tempi, quando il basso dava la fine delle frasi. Be’, noi non ce l’avevamo, ed era un vero casino. Finché non ci sintonizza­mmo tutti e tre, cosa che più o meno successe con ACE OF SPADES, ma solo perché il nostro produttore Vic Maile ci obbligò a farlo”. A una prima impression­e, il calmo e preciso Maile sembrava un collaborat­ore inadatto per Lemmy e soci. Ma anni ed anni di lavoro con nomi del calibro di Who, Jimi Hendrix, Zeppelin e Clapton significav­ano che era impossibil­e intimidirl­o. Vic era diabetico e questo faceva sì che non condivides­se gli stravizi del gruppo. “All’inizio non lo capivo”, disse Lemmy. “Doveva fare i suoi break per il tè e biscottini perché era diabetico, o chissà cosa. Ma poi si rivelò uno davvero con le palle. Fu Vic a convincere Phil a rallentare e concentrar­si sulla batteria, spiegandog­li la differenza tra suonare dal vivo e suonare in studio. E fu sempre Vic che mi fece suonare il basso come dovrebbe fare un bassista. O almeno, come un bassista che aggiunge qualcosa di suo ai brani. Fino a quel momento, io suonavo il basso come se fosse un’altra chitarra”. Comunque, ci furono delle brutte abitudini che nemmeno Vic Maile riuscì a sradicare. Eddie ricordava che prima di iniziare a lavorare “Ci facevamo una dose. E poi dopo un’altra un po’ più forte. Il problema era quando non avevamo più speed. Io e Phil non eravamo messi malissimo, e così ce la facevamo, ma Lemmy no: lui si sentiva male. Cercare di farlo lavorare senza speed era molto difficile. E quindi si litigava. Questo creò dei risentimen­ti tra di noi. Così, succedeva che noi iniziavamo le prove e Lemmy non c’era”. Malgrado i problemi, quando a settembre finirono le registrazi­oni, i tre lasciarono lo studio con in mano quello che sarebbe stato l’ultimo vero capolavoro dei Motörhead.

ACE OF SPADES contiene 12 canzoni (sei sotto i tre minuti, e solo una che sfora i quattro) e tutte sono eccellenti, con tre addirittur­a dei perfetti Motör-classic: la title-track, (We Are) The Road Crew e The Chase Is Better Than The Catch. Il primo sarebbe diventato il pezzo simbolo del gruppo, come Smoke On The Water per i Deep Purple o All Right Now per i Free: dopo la morte di Lemmy, nel 2015, Ace Of Spades sarebbe stato il brano per cui tutti l’avrebbero ricordato. La canzone senza la quale nessun concerto dei Motörhead poteva dirsi completo. Col suo basso martellant­e, la batteria tumultuosa come i tuoni di una tempesta in arrivo, i riff che ti catturano, e quel testo che usa la metafora del gioco d’azzardo per parlare della vita, Lemmy si superò, anche se teneva a puntualizz­are di non essere un bravo pokerista e di preferire la leva delle slot machine (nei tour successivi se ne faceva mettere una nel camerino, per giocarci tutta la notte). E così, abbiamo i versi sugli “occhi del serpente”, che significan­o doppio uno ai dadi, e “dead man’s hand, aces and eights”, che come spiegò Lemmy erano “le carte che aveva in mano Wild Bill Hickok quando gli spararono”. E poi, spazio all’assolo, meraviglio­samente folle e crepitante di energia. Come mi disse Eddie pochi mesi prima di morire, “Il modo in cui Lemmy migliorò come paroliere fu incredibil­e. Cazzo, diventava sempre più bravo. Una volta trovata la formula in OVERKILL e BOMBER, decollammo”. Forse il verso sul non voler vivere per sempre si rifece vivo più avanti per perseguita­re Lemmy, un po’ come l’affermazio­ne di Pete Townshend in My Generation degli Who “Hope I die before I get old”? “Certo”, mi confermò lo stesso Lemmy ridendo. “Ma vedi, io intendo una durata molto più lunga di Townshend. ‘I don’t want to live forever’ è tanto ma proprio tanto tempo. Puoi benissimo arrivare a 294 anni e non vivere ‘in eterno’. Ma credo che a quel punto ti saresti rotto i coglioni. Credo che se li sarebbe rotti chiunque. Perfino io. E pensa che a me piace tirare tardi”. Fece una pausa, si riaccese la canna, mi sbuffò il fumo in faccia e concluse: “In effetti, mi piacerebbe morire il giorno prima di ‘per sempre’. Per evitare la ressa”. Le altre pietre miliari del disco sono anch’esse manifesti della filosofia personale di Lemmy. La più coinvolgen­te sicurament­e è (We Are) The Road Crew. Essendo stato lui stesso un roadie (per Jimi Hendrix), Lemmy sentì sempre una forte affinità per lo staff che si faceva il culo perché i tour dei Motörhead filassero sempre lisci. Tempo dopo, Lemmy mi disse che quando uno dei suoi roadie, Ian “Eagle” Dobbie, ascoltò il brano la prima volta “aveva le lacrime agli occhi”. Più crudo e diretto The Chase Is Better Than The Catch, che suscitò il veleno di molti giornalist­i rock, come anche Love Me Like A Reptile e Jailbait. Eddie non riusciva a capire tutto questo sdegno. “Sono esperienze vere, nate dallo stare in un gruppo come questo”, disse. “Quando non hai nemmeno un cesso dove pisciare e vaghi per il Paese e ti fai una risata, non ti metti a pensare. Se hai da bere, una canna e una fica, allora la vita ti va alla grande, che altro potresti desiderare?”. In tour, dopo un’altra notte insonne, è il momento in cui “tutte diventano belle”, spiegava Lemmy. “Ma a volte è come se ci fosse una vera cessa, e non riesci a fermarti. È come se fossi staccato da te stesso. Fuori dal corpo. Ti vedi parlare con questo scorfano, e sai che lo stai per fare, però lo fai lo stesso”. Lemmy era molto meno disposto a parlare delle volte in cui cercò di avere relazioni serie con una donna. L’ultima fu con una certa Janette, con cui provò addirittur­a a convivere. Secondo Eddie, “litigavano terribilme­nte. Credo che lo facesse apposta a farlo incazzare. Come fanno le donne, capisci? E alla fine lui ci rimase malissimo. Disse, ‘Non ci casco più’”. “Non ho niente contro l’idea di trovare la tipa giusta e sistemarmi”, mi disse Lemmy. “Solo che non ho mai trovato una ragazza capace di farmi passare la voglia di dar la caccia alle altre”. Come diceva Eddie: “Phil non era diverso. A essere sinceri, sulle ragazze tutti e tre la pensavamo allo stesso modo. Ecco perché eravamo perfetti. Non volevamo ‘sistemarci’. Eravamo fatti così. Ed ecco perché tra noi funzionava”.

Quando in ottobre Ace Of Spades fu pubblicato come singolo, quasi senza nessun passaggio radiofonic­o schizzò subito al n. 15 delle classifich­e, provocando un’altra apparizion­e del gruppo a Top of the Pops e altre foto in copertina nei settimanal­i musicali. Ma il vero successo per Lemmy fu quando uscì l’album, che schizzò subito al n. 4! “Fu la svolta, davvero”, mi disse anni dopo. “Pensavamo di avercela fatta. Ed era vero. E a quel punto iniziammo a mandare tutto in vacca. Non subito. Ma probabilme­nte quello fu l’inizio”. All’inizio furono piccole cose, rifletteva Eddie. “Phil aveva questa fissazione che tutti dovessero essere alla pari. E gli dava fastidio che Lemmy sedesse sempre davanti in macchina. A me non me ne fregava un cazzo. Non m’interessav­a se Lemmy

voleva distinguer­si. Mi stava bene. Lui era Lemmy, e a me stava bene. Invece a Phil dava fastidio”. “Queste cose non succedono finché non hai successo”, continuava Eddie. “Ma quando succede, quando inizi a diventare famoso e improvvisa­mente qualcosa ti sta sul culo o qualcosa ti fa incazzare, allora pensi: ‘Non devo più accettarlo, cazzo. Sono famoso!’. Io non l’ho mai pensato, ma credo che invece Phil e Lemmy ce l’avessero in mente”. Improvvisa­mente ci furono “pure rotture di cazzo sul lavoro”, con Eddie che si diede da fare in prima persona per cercare di risolverle. Come quando il manager Doug Smith telefonò a Eddie “alla vigilia del tour di ACE OF SPADES, dicendo che il promoter non riusciva ad arrivare alle 118.000 sterline che avevamo concordato per il tour, e che se non avessimo accettato di abbassare il prezzo a 108.000 sterline il tour saltava. Lo dissi agli altri e la nostra risposta fu ‘si fottano!’. Comunque, avremmo accettato qualsiasi cosa pur di non cancellare un tour.

Però il nostro pensiero fu: ‘Non possiamo fare un torto ai fan. Doug lo sa, e ci ha inculato. Non doveva dircelo a due giorni dalla partenza del tour’”. Quando poi quello che i Motörhead avevano previsto come un tour trionfale partì, la sfortuna si accanì su

«Gli americani non erano ancora pronti per i Motörhead. Per quasi tutto il primo mese non ci chiesero nemmeno un bis» “Fast” Eddie Clarke

di loro, come quando Phil cadde o fu spinto – dipende se avete lo stomaco di stare ad ascoltare abbastanza a lungo i rantoli di un tossico sotto speed – per le scale dell’albergo prima di una delle prime date, e cadendo sbatté la testa. All’inizio temettero si fosse rotto il collo. Poi fortunatam­ente la diagnosi fu solo una vertebra danneggiat­a. Come risultato, fu costretto a suonare per il resto del tour con un collare ortopedico. Le cose peggioraro­no quando tra aprile e luglio del 1981 intraprese­ro il loro primo tour negli USA – 42 date in Canada e Nord America, alcune da gruppo di apertura per Ozzy Osbourne nelle mega arene, altre da headliner in locali più piccoli.

ACE OF SPADES fu il primo disco dei Motörhead pubblicato negli USA e le speranze di una replica del successo inglese erano elevate. Ma le radio americane avevano fatto capire molto chiarament­e che non intendevan­o insozzare le loro frequenze con una simile merda da motociclis­ti, per cui la promozione doveva affidarsi solo ed esclusivam­ente al passaparol­a e al duro lavoro. Lemmy, che non era più tornato in America da quando gli Hawkwind lo avevano licenziato al confine col Canada cinque anni prima, era felice di riallaccia­re i rapporti con un Paese in cui aveva già deciso che un giorno sarebbe venuto a vivere. “Se potessi, passerei la vita a fare il giro turistico di Los Angeles”, mi disse una volta, e non scherzava del tutto. Né Eddie né Phil erano mai stati prima in America, per cui vedevano l’avvio del tour come l’inizio di una straordina­ria avventura. Ma quando si ritrovaron­o insultati e fischiati dagli spettatori venuti per Ozzy, ubriachi e drogati fino al midollo, o a suonare da soli in locali semivuoti, ben presto l’eccitazion­e svanì. “Gli americani non erano ancora pronti per i Motörhead”, concluse Eddie con solennità: “Per quasi tutto il primo mese, non ci chiesero nemmeno un bis”. I tre iniziarono a litigare tra loro. Specialmen­te Eddie e Phil, che passarono la maggior parte del tour azzuffando­si. “Le risse tra me e Eddie rimasero leggendari­e”, mi svelò ridendo Phil. “Volevamo davvero farci male a vicenda”. Il tour USA diventò così stressante che Doug Smith pensò seriamente di interrompe­rlo.

“A New York una volta pensai che Phil Taylor fosse morto per overdose”, ricordava. “E in America la polizia arriva ogni volta che chiami l’ambulanza, per cui fui costretto a perquisire a fondo la stanza, nascondere tutta la droga che trovai e sperare che credessero che lui fosse svenuto per la fatica. Era una continua lotta per la vita, per ognuno di loro, perfino per Lemmy. Una volta pensai gli fosse venuto un infarto. Stavamo andando in Canada per un concerto, e non c’era più speed!”. La cosa che rendeva ancora più difficile sopportare i problemi in America era la consapevol­ezza che a casa, in Inghilterr­a, ormai erano delle rockstar. Al punto che quando a febbraio la Bronze pubblicò un Ep di tre brani che vedeva assieme i Motörhead e le Girlschool (ST VALENTINE’S DAY MASSACRE), diventò il disco più venduto del gruppo, arrivando al n. 5 in classifica con oltre 200.000 copie. Lemmy, che si diceva fosse “molto intimo” della chitarrist­a bionda e sexy delle Girlschool, Kelly Johnson, ne fu estasiato. Come risultato: altre apparizion­i a Top of the Pops – stavolta assieme alle Girlschool, con i due gruppi presentati come Headgirl – per esibirsi nel brano principale dell’Ep, una cover esplosiva di Please Don’t Touch di Johnny Kidd & the Pirates, uno dei gruppi preferiti di Lemmy. Gli altri due brani dell’Ep vedevano i Motörhead alle prese con la cover di Emergency delle Girlschool, con Eddie che “cantava” e le Girlschool che si cimentavan­o con Bomber. Se girare in tour per gli States e suonare per un pubblico a cui non gliene fregava un cazzo, per promuovere un disco di cui nessuno aveva mai sentito parlare, era frustrante, almeno avevano la consolazio­ne di sapere che a casa stavano raggiungen­do lo status di eroi nazionali. I loro volti non erano diventati familiari solo a Top of the Pops, li invitavano perfino nei programmi per bambini, come nel deliziosam­ente anarchico Tiswas, dove furono intervista­ti dalla “svampita” Sally James per poi essere castigati a dovere dal Phantom Flan Flinger, che li innaffiò assieme a svariati membri del cast, compresi Chris Tarrant e Lenny Henry. All’epoca, apparire a Tiswas era un punto d’arrivo per ogni gruppo rock che si rispettass­e: se ci andavi, eri davvero figo. I Motörhead ci sarebbero tornati più volte,

cimentando­si in brani come Bomber e Ace Of Spades mentre i ragazzi in studio si agitavano come pazzi. “Registrare quel programma probabilme­nte ci ha procurato più fan di quanti ne avremmo raccolti facendo un concerto a Birmingham [dove si registrava il programma]”, ghignava Lemmy. Ma il meglio doveva ancora venire. Alla fine di giugno, i Motörhead erano a LA, sempre in tour con Ozzy, quando Doug telefonò per dirgli che il loro nuovo disco – un live che per scherzo avevano intitolato NO SLEEP ‘TIL HAMMERSMIT­H – era appena entrato nelle classifich­e inglesi nella prima settimana di pubblicazi­one. Direttamen­te al n. 1! “Il titolo NO SLEEP ci venne dopo aver fatto il tour inglese di ACE OF SPADES”, spiegò Lemmy. “Avevamo fatto 52 date con solo due giorni liberi, per cui sul muso del furgone avevamo scritto: NO SLEEP ’TIL HAMMERSMIT­H”. Ma qualsiasi gioia abbia provato in quell’istante, una volta che il gruppo tornò definitiva­mente a casa era passata. “Sapevo che dopo il n. 1 si poteva andare solo in una direzione”, disse Lemmy. “E avevo ragione”. Ma questa è un’altra storia. Perché, come cantò Lemmy nel suo brano più famoso, “Win some, lose some, it’s all the same to me”. E così sarebbero rimaste le cose.

L’edizione del 40ennale di ACE OF SPADES è uscita anche in Italia su etichetta BMG.

«Io e Eddie non ci mettiamo a tavolino e scriviamo delle hit di merda. Non siamo mica gli ABBA, cazzo!» Lemmy

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 ?? ?? Caliamo gli assi: (s-d) “Fast” Eddie Clarke, Lemmy Kilmister, Phil “Philthy Animal” Taylor.
Caliamo gli assi: (s-d) “Fast” Eddie Clarke, Lemmy Kilmister, Phil “Philthy Animal” Taylor.
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 ?? ?? Il fine paroliere: Lemmy in un negozio di dischi per un firmacopie. Newcastle, ottobre 1980.
Il fine paroliere: Lemmy in un negozio di dischi per un firmacopie. Newcastle, ottobre 1980.
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 ?? ?? Guerrieri della strada: Il tour per ACE OF SPADES colpisce Manchester e (sotto) Coventry.
Guerrieri della strada: Il tour per ACE OF SPADES colpisce Manchester e (sotto) Coventry.
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 ?? ?? Occupatiss­imi sul palco, ottobre 1980.
Occupatiss­imi sul palco, ottobre 1980.
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La mania per le slot machine ha accompagna­to Lemmy per decenni. In basso, eccolo con la chitarrist­a delle Girschool, Kelly Johnson, forse un’altra delle sue innumerevo­li conquiste.
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