MADE IN HEAVEN Il Paradiso può attendere
Dopo un travaglio a dir poco romanzesco, l’ultimo lavoro dei Queen prende forma, per consegnare ai fan il tassello finale di un percorso iniziato e concluso all’insegna della regalità
Pubblicato su Classic Rock Speciale n. 11 Novembre/Dicembre 2018
Il fatto che i Queen avessero da parte un nuovo album da consegnare alle stampe dopo la morte di Mercury, era una notizia trapelata ben prima che Brian May ne parlasse alla rivista «Guitar World», agli inizi del 1993. Una voce talmente insistente e diffusa da lasciare i fan in uno stato di perenne eccitazione, sovrastimolata da continui accenni e sibilline dichiarazioni da parte dei restanti Queen, che in breve finirono per attribuire al disco uno status a dir poco leggendario, anni prima della sua uscita. Una condizione a conti fatti meritata, sia per la qualità del prodotto finito, sia per il suo spingersi oltre la semplicistica qualifica di album postumo. Struggente, carico di pathos, tristezza, malinconia e riflessioni sull’ineluttabilità della morte che ben si prestano a proseguire la linea tematica iniziata con INNUENDO e solo apparentemente culminata con la morte di Mercury, MADE IN HEAVEN non è soltanto l’ultimo disco dei Queen, ma rappresenta un viaggio su più fronti, che va al di là del testamento artistico e spirituale. Un tragitto all’interno del continuum spazio-temporale, che inizia nel 1976 (è di quell’anno, infatti, la primissima bozza di Let Me Live, progetto pensato per una collaborazione fra la band e l’accoppiata Rod Stewart/Jeff Beck) e si conclude con i brani scritti a Montreux fra la fine del 1990 e la primavera del 1991. È proprio in questo periodo, durante le fasi di rifinitura di INNUENDO, che la band britannica si rende conto di avere ancora molto da dire, a fronte di un tempo estremamente esiguo per farlo. Sebbene i medici avessero già dato per spacciato Mercury nel 1989, la tenacia del musicista inglese non solo gli aveva consentito di dare voce ad altri due album, ma sembrava infondergli, in quelli che sarebbero stati i suoi ultimi mesi di vita, una forza e una vitalità incredibili, al punto di pressare i compagni con richieste come: “Datemi roba da fare… datemi roba da cantare, perché quando me ne sarò andato, voi potrete portarla a termine”. Un cipiglio
che lo portò a spronare la band a incidere almeno quattro brani nel quadrimestre gennaio-aprile 1991: Lost Opportunity (traccia in odore di blues cantata da May e scelta come b-side di I’m Going Slightly Mad), la fantasia spagnoleggiante di You Don’t Fool Me, l’idilliaca A Winter’s Tale e la struggente Mother Love, delle quali le ultime due assumono sicuramente un peso lirico e compositivo fondamentale. Se da un lato l’ultimo brano “natalizio” dei Queen rappresenta una pacificante trascrizione dell’incanto che aveva rapito il cuore del cantante inglese in un’alba dai connotati quasi magici, dal porticato della sua casa in riva al lago di Ginevra, Mother Love raccoglie il pesante fardello di un passaggio di testimone obbligato, dal momento che fu l’ultima traccia sulla quale Mercury lavorò fattivamente, ma che non poté portare a termine perché a dispetto della promessa “Guarda, va bene così: tornerò fra qualche giorno per finirla…”, come ricorda May, “agli inizi dell’estate del ’91 le sue condizioni non gli permisero più di ritornare in studio”. Fu forse a causa di questa promessa disattesa dal fato, che dopo il Freddie Mercury Tribute (aprile ’92) si creò una sorta di scisma interno alla band, che vedeva da un lato un sempre più recalcitrante May tergiversare sul progetto, e dall’altro Taylor e Deacon, che iniziarono con piglio quasi carbonaro a rimaneggiare le tracce che avrebbero costituito il corpus dell’album. Per quanto la pubblicazione del “nuovo” disco dei Queen stesse assumendo connotati sempre più vaghi e romanzeschi, il periodo intercorso fra il ’92 ed il ’94 ci racconta una storia parallela di litigi, discussioni, controversie e repentini riavvicinamenti, sullo sfondo, oltretutto, dei successi in termini di vendite dei lavori solisti di May e Taylor. Una fase complicata, la cui matassa iniziò a divincolarsi quando il riccioluto chitarrista mise finalmente mano al lavoro assemblato dai suoi due compagni d’avventure, per rivederlo e in parte stravolgerlo. Il risultato, dato alle stampe il 6 novembre 1995, fu un commovente compendio della storia dei Queen e del loro universo musicale, nel quale le tracce forse più amate del
«MADE IN HEAVEN non è soltanto l’ultimo disco dei Queen, ma rappresenta un viaggio su più fronti, che va al di là del testamento artistico e spirituale»
Mercury solista (la title-track e I Was Born To Love You) ritrovavano sulla via di Damasco il trademark hard’n’heavy di cui le versioni originali erano sprovviste. Un lavoro introspettivo, denso di chiaroscuri, in cui la luminosità della voce di Mercury si palesa in ragione dell’ombra che proietta sullo sfondo di una malattia pronta a strappargli gli ultimi brandelli di carne rimasti. Per quanto le atmosfere risultino fosche, cariche di synth e tastiere spesso pesanti, come dimostra l’arcinota ballata Too Much Love Will Kill You, che da BACK TO THE LIGHT viene restituita alla voce di un Mercury ancora più drammatico e meditabondo, è nell’incontenibile vitalità di tracce come My Life Has Been Saved, a suo tempo inspiegabilmente scartata da THE MIRACLE, che l’album confuta la massima voltairiana per cui “l’ottimismo è la rabbia di dire che tutto va bene quando tutto va male”. È in questa luce che la lunga traccia fantasma alla fine di MADE IN HEAVEN si traduce in un saluto sereno, epurato dal dolore della separazione, commento al viaggio che, in un’inedita veste ambient, riporta in 22 minuti l’ultima riflessione sul rapporto che Mercury ha avuto con la musica, la vita e i suoi compagni. Laconicamente intitolata Track 13, laddove 13 è il numero che nei tarocchi si lega all’arcano maggiore della morte, questa dissertazione, partita da David Richards (che ha prodotto il disco, coadiuvato dalla band), rivela una tensione spirituale e fisica che si rinnova a ogni ascolto, alla fine del quale sembra ancora di sentire Mercury che si ostina, durante l’incisione di Mother Love, a rincorrere l’essenza stessa del suo perfezionismo: “No no… così non va affatto bene! Qui devo salire di più, ci devo mettere qualcosa in più, ci vuole più potenza”, come ricordava un commosso May, nel 1995. ✪