ROCKSTAR E UNA PAROLACCIA!
Chris Cornell a ruota libera, in un’intervista realizzata a Los Angeles nell’estate del 1996. Forse, già allora, era tutto scritto...
Loscuro signore della rabbia e dell’alienazione scruta il mondo dalla finestra del ristorante e vede nere limousine scivolare lungo le strade bruciate dal sole di Hollywood, simili a immensi scarafaggi sotto steroidi. Si passa le dita tra i capelli neri come il carbone e si concede una risata un po’ amara. Siamo a LA, il regno del fatuo, del superficiale e dei super-ricchi, in compagnia di un uomo da molti considerato come uno dei più intensi e profondi musicisti della sua generazione. Ogni aspirante artista che sogna il successo s’immagina che LA sia faaaaaaantastica.
Che la pensi così anche lui?
“Quando ero ragazzo, per me la California era un mito”, sorride.
“Un posto dove tutti avevano la piscina e c’era sempre il sole. Parchi di divertimento immensi, e luna park. Dentro di me, pensavo che LA fosse il paradiso. Mi piacerebbe tornare a Disneyland per rivivere quei ricordi”.
Quando ci sei venuto per la prima volta?
“La prima volta avevo nove anni, la seconda undici. Ricordo che a nove anni mi sono divertito di più, perché non avevo ancora cominciato a essere depresso. A 11 anni ti capita di alzarti una mattina e improvvisamente iniziare a sentirti male per tutto. A te non è successo?”.
Il sole è alto, il cielo è blu, e Chris Cornell sorride. È lui la superstar più cupa e depressa di Seattle, il bel ragazzo un po’ petulante che vede tutto nero e che si è costruito una carriera piagnucolando sui brutti momenti passati? E ancora, è Chris Cornell lo stesso che ha registrato l’ironica e lussuriosa Big Dumb Sex, che per i bis usa Big Bottom, il classico sporcaccione degli Spinal Tap, e che ora si esibisce in duetti al mandolino nel suo ultimo disco multiplatino? Brontolone o genio folle? Mr Sghignazzo o Mr Cacacazzo?
Per favore, il vero Chris Cornell potrebbe fare un passo avanti?
Chris beve la sua acqua minerale e scrolla le spalle con noncuranza. “Sarebbe un lavoro troppo duro cercare di fare in modo che ogni fan dei Soundgarden sapesse perfettamente chi siamo e a cosa somigliamo. È impossibile, e io non potrei mai prendermi questa responsabilità”.
Ti spiace se iniziamo?
“Ok”, dice piano, “ma non mi va di essere divertente in questa intervista. E tu non puoi costringermi”. Il giovane Chris Cornell era, parole sue, un “bimbo difficile”. Era molto indipendente e spesso spariva per lunghe ore nei boschi attorno Seattle, facendo preoccupare a morte i suoi genitori. Lo sapeva bene che così facendo si sarebbe cacciato nei guai, ma era un piccolo moccioso testardo e, per dirla molto chiaramente, se ne fregava. In castigo, a casa guardava alla tv Braccio di Ferro o cartoni futuristici come Gigantor o Speed Racer, e sognava di diventare un giocatore professionista di football americano. Sfortunatamente, sapeva bene
di essere troppo piccolo – e troppo scarso – per arrivare al livello dei professionisti. Ma sicuramente avrebbe trovato qualcosa di meglio… La prima volta che ascoltò i Beatles, il giovane Cornell capì che aveva trovato la sua strada. I suoi genitori invece ne erano meno convinti.
“Li feci impazzire passando tutta l’infanzia a picchiare su tamburi improvvisati”, ricorda con un sorriso. Li sfiancavo, e non avrei mai pensato nemmeno in un milione di anni che mi avrebbero permesso di avere una batteria”. Errore. “Arrivato a 15 anni, mia madre aveva perso ogni speranza di potermi educare, così deve aver pensato che perlomeno avevo un interesse che in fondo era un po’ meglio delle droghe o di una vita criminale, per cui si arrese e mi regalò un rullante. Dopo un paio di giorni passati a pestarci sopra, comprai il resto del set per 50 dollari da un tizio che conoscevo. Due settimane dopo, ero nel mio primo gruppo”. Negli anni successivi, il giovane Cornell si ritrovò in mezzo a cose strane e oscure: Ramones, AC/DC, Sex Pistols, qualsiasi cosa dura, frenetica e soprattutto rumorosa su cui il giovane pestatamburi potesse mettere le mani.
“Quei gruppi erano favolosi”, dice con entusiasmo, “perché potevi suonare i loro brani senza dover essere davvero capace di suonare. Il mio primo gruppo suonava le loro canzoni, e per le nostre giovani e immature orecchie le suonavamo bene quanto loro. E fu a quel punto che le cose per me cominciarono ad andare orribilmente male”. In pochi mesi, Chris si rese conto che quella musica era tutto quello che voleva fare. Lasciò la scuola. Iniziò a lavorare. Piccoli lavoretti come magazziniere, nei ristoranti, al porto di Seattle – “I classici lavori per chi non ha un diploma”. La sera suonava in gruppi da bar, qualsiasi branco di perdenti disposto a dargli spazio. Sognava che un giorno un gruppo importante sarebbe arrivato a Seattle, e rimasto folgorato dal suo stile spettacolare lo avrebbe assunto su due piedi, permettendogli finalmente di godersi tutto il sesso, la droga e il rock’n’roll che il suo giovane corpo poteva reggere. Quattro anni dopo, Chris suonava ancora con gli stessi gruppi di merda negli stessi locali di merda, nella stessa situazione di merda, per gli stessi soldi di merda. Ed era sempre più incazzato. Non era il solo. Un giovane chitarrista di Seattle, Kim Thayil, provava le stesse cose. E con lui, il suo amico bassista, Hiro Yamamoto. I tre unirono le forze, scrissero 15 brani in un mese e scelsero un nome – Soundgarden. “All’inizio, la gente ci detestava”, dice Chris ridendo. “Salivo sul palco a torso nudo, avevo i capelli lunghi e li agitavo di continuo, diciamo che facevo il tipico tizio rock sudatissimo. Avevo un sacco di nastri nei capelli, quasi 50, e agli stronzi nel pubblico questo non piaceva. Magari inconsciamente mi trovavano attraente, e la cosa li spaventava e li infastidiva”.
Adesso hai smesso di voler disturbare le percezioni delle persone, di divertirti a provocarle?
Prima di rispondere Chris sospira. “All’inizio era divertente farlo, anche eccitante, perché perlomeno il pubblico reagiva. Ma quando Kurt Cobain sale sul palco per la 50esima volta con un vestito da donna, la reazione è ‘Ok, rieccolo. Ci risiamo’. Parliamo dei primi concerti in piccoli locali di Seattle come la Central Tavern e la Ditto Tavern, di fumetti e film, delle cose che Cornell preferisce ascoltare – i Fugazi, i Beastie Boys e Jeff Buckley. Alla fine, il discorso arriva all’arresto del chitarrista dei Soundgarden, Kim Thayil, accusato di tentata violenza su una ragazza diciottenne. Chris non ha piacere di parlare della cosa, ma è chiaro che è certo dell’innocenza dell’amico. “Kim è un tizio davvero dolce, il più gentile e aperto di tutti noi”, insiste. “Ma è anche il più riconoscibile e ovunque vada, la gente gli si appiccica addosso. Di solito se la cava bene. Noi non siamo persone estroverse a cui piace stare alla ribalta. Amiamo la musica, ma faremmo benissimo a meno della fama. Il punk ha avuto una grande influenza su di noi, sia come musica che come atteggiamento verso il mondo. La maggior parte dei gruppi importanti in questo momento hanno avuto dei rapporti col punk e noi stiamo molto attenti a non comportarci come delle rockstar, perché per noi “rockstar” è una parolaccia”.
Ma non ti viene in mente che, lo voglia o no, sei anche tu una rockstar?
“Ovvio”, concorda Chris, “ma ci sono un sacco di equivoci su cosa significhi davvero essere un gruppo rock di successo. La realtà è semplice: un gruppo di persone normalissime che si guadagnano da vivere suonando. Non è che all’improvviso siamo diventati migliori o più interessanti di come eravamo prima. Persone come Freddie Mercury o Alice Cooper erano autentiche rockstar, dei tipi veramente cool, dei veri intrattenitori, persone con un carisma superiore alla media. Io non potrei mai esserlo, perché essere o sentirsi superiori alla media – col mio retroterra punk – è una cosa molto brutta. È la completa antitesi a tutto quello per cui il punk ha lottato”.
Però oggi Chris Cornell è amato e venerato da qualche milione di persone. Non ti sembra strano?
“Molto, specialmente per come la gente ti guarda”, dice. “Hanno quello sguardo un po’ folle, con gli occhi sgranati, e ti guardano come se tu fossi l’Esorcista, sai? Come se la testa ti ruotasse sul collo e all’improvviso iniziassi a vomitare a spruzzo. Credono che tu sia speciale, solo perché sei stato in televisione. La sola cosa che puoi fare è lasciare che si godano le loro folli sensazioni”.
“Nel gruppo, anche nei momenti migliori siamo tutti molto imbranati in pubblico, e anche se adesso ci sentiamo più a nostro agio con i fan, è sempre tutto leggermente surreale. Ho degli amici anche loro famosi, che sono più estroversi e molto più socievoli di me, e proprio perché sono così disponibili non riescono ad avere una vita normale. Il successo gli ha cambiato la vita e loro non riescono a farla tornare come prima.