ROBERT SMITH Londra, primavera 1989
Cosa ti spinge, principalmente, a realizzare nuovi album?
La ragione per cui si fa un altro disco è che magari si pensa di poter far meglio; altrimenti, sarebbe stupido andare avanti. Abbiamo deciso di incidere un nuovo album perché penso che siamo ancora nella posizione di continuare a fare ciò che vogliamo; quando cominciammo, ci sentivamo più in competizione con altri gruppi, adesso non più, e questo ci è d’aiuto. Se ti senti in competizione, sei portato ad apparire e a farti notare il più possibile dalla gente e ciò finisce per diventare stupido… non penso che faremo più qualcosa del genere.
Di che cosa parli nei brani, e perché DISINTEGRATION?
Di tante cose… boh, non lo so, l’invecchiare… il rendersi conto di non poter far niente per qualcosa che poi non risulti essere privo di senso. Solitamente poi, quando cominciamo a lavorare, troviamo il titolo: ad esempio, se fosse SEVENTEEN SECONDS, THE HEAD ON THE DOOR o THREE IMAGINARY BOYS, richiamerebbe alla mente qualcosa di particolare, ma per THE TOP o ancora DISINTEGRATION, è una descrizione più intensa di tutto il progetto, il significato del Lp in una sola parola. Non è letteralmente “disintegration”, è un po’ come “pornography”, parole che lasciano intendere qualcosa di più ampio del loro significato…
Sembra essere un disco molto azzeccato per il mercato del Cd. Quante canzoni avete registrato, come le avete incise e come le avete messe insieme?
La maniera con cui le abbiamo assemblate è stata la stessa adottata per KISS ME KISS ME KISS ME: quando ci siamo incontrati nuovamente questa estate, ognuno di noi aveva portato delle cassette e così, seduti con un drink, ci siamo messi ad ascoltarle, cercando di non ridere di quelle degli altri: saranno state forse una trentina, che abbiamo ridotto a venti su cui lavorare, e infine ne abbiamo registrate in studio diciassette completamente finite.
Ma mentre con KISS ME non sono sorti problemi, perché eravamo già partiti con l’idea di un doppio (anche se poi nel Cd non ci sono tutti i pezzi), questa volta prima di iniziare avevamo deciso di incidere un singolo Lp di lunga durata; avevamo abbastanza materiale per farlo e ciò consente, più che “allungare” le canzoni, di essere meno severo con le misure che devi rispettare, ma se ti piace, ti piace, e ti piace più a lungo. Con FAITH avevamo preferito avere più tempo per sperimentare nello stesso periodo in cui si lavorava all’album, anche se poi si è sempre costretti a rispettare la durata di un disco, venti minuti per ogni lato. Questa volta abbiamo iniziato a lavorare sulle canzoni dall’inizio alla fine, senza pensare alla prima o seconda parte; il Cd e la cassetta sono molto meglio del vinile, e contengono due pezzi in più.
Cosa puoi dirci del pezzo scelto come anticipazione dell’album, Lullaby?
È uscito come singolo in tutto il mondo, con l’eccezione degli USA; si è trattato dell’unico compromesso che abbiamo dovuto accettare, anche perché abbiamo lasciato completamente alla casa discografica la scelta del 45 giri. Solitamente, se insisti nel voler farti pubblicare un singolo, rischi di non avere la promozione adeguata, così accettiamo che siano i responsabili dell’etichetta a tirar fuori il pezzo giusto. Tuttavia, penso che Lullaby sia un brano particolarmente “forte”, che non lega molto con lo spirito generale del disco; fra l’altro, in origine era destinato a non apparire sul vinile, ma la Polydor… In ogni caso, anche il vinile scorre bene, abbiamo cercato di fare il possibile e in totale è più di un’ora di musica. Abbiamo un po’ dovuto “comprimere” la stampa su vinile delle tracce, purtroppo con le ovvie conseguenze sulla resa sonora; meglio, comunque, che fare un disco con otto pezzi soltanto, sarebbe stata una cosa completamente differente.
«Quest’ultimo album sembra essere adatto più per un ascolto a casa da soli che per essere sentito alla radio. Penso che suggerisca delle emozioni»
ROBERT SMITH, 1989
Non credi che DISINTEGRATION sia un po’… deprimente?
Penso che, per tutti questi anni, solo una piccola parte della nostra musica possa essere definita deprimente. Per me, poi, è abbastanza difficile spiegarlo, perché di natura non sono una persona particolarmente contenta; posso ritenermi molto fortunato, nella posizione in cui mi ritrovo, anche se ciò non è che aiuti tanto… Quest’ultimo album sembra essere adatto più per un ascolto a casa da soli che per essere sentito alla radio. Penso che suggerisca delle emozioni e ti faccia provare qualcosa; detto con un paradosso, il rendersi conto di quanto si sa alla mia età di fronte all’invecchiare, la preoccupazione di non essere più in grado di sentire le cose…
Hai paura di invecchiare?
No, non è paura, è solo un sentimento
di frustrazione, ma per adesso sopravvivo abbastanza bene. Quando sei giovane, sei portato a pensare quanto invecchiare possa essere terribile, ma con il passare degli anni cominci ad accettare le cose, mentre da giovane non accetti un bel niente.
Avete trascorso molto tempo in studio?
Sì, abbiamo vissuto lì, così da poter registrare giorno e notte, ma non è stata una decisione “artistica”, era solo più divertente. È stato più importante per noi aver creato un’atmosfera, e quello che ci voleva era trovare uno studio adatto, un posto tranquillo come il Miraval in Francia; in verità avevamo pensato di tornarci, solo che un po’ tutti volevamo rimanere in Inghilterra, e quindi siamo andati vicino Bath.
Pensi che dal vivo sarete in grado di ottenere lo stesso tipo di atmosfera?
Sì, possiamo riprodurla, ma ottenerla dipende anche dall’audience di fronte alla quale si suoni o da quello che può accadere sul palco. Se ci fosse qualcosa che non funziona, però, sarebbe impossibile, per la calma di questa musica, riuscire a evocare le medesime sensazioni.
Anche perché le tastiere sembrano essere l’elemento portante dell’album.
Lo so. È una sorta di sfida, quella di cercare di comunicare al pubblico di un nostro concerto lo stesso tipo di feeling; è comunque assai difficile, soprattutto se pensi a quelli che stanno in fondo, visto che gran parte dei posti in cui suoniamo sono stadi. La cosa fondamentale, per noi, è che in molti luoghi ci esibiremo per la prima volta, come in Portogallo, e stiamo vedendo se è possibile raggiungere anche Jugoslavia, Ungheria, Bulgaria e Unione Sovietica, considerando il fatto che non vogliamo più viaggiare in aereo. La scaletta dal vivo prevede per lo più pezzi nuovi, dei due ultimi album; quest’anno abbiamo preparato circa cinquanta brani, così da permetterci di decidere di volta in volta ogni sera, suonando qualche pezzo vecchio più nei posti dove non siamo mai stati e dove magari ci potrebbero venire richiesti dalla gente.
È sempre difficile scegliere, perché il nostro repertorio si è allargato tantissimo; durante lo scorso tour abbiamo pensato di far girare nella platea una telecamera, filmando l’audience e chiedendo loro cosa desiderassero ascoltare; poi, vedevamo le videocassette nei camerini e stabilivamo i cambiamenti possibili.
Questa volta spero che saremo un po’ più preparati. Proporremo cose che non suoniamo più dal vivo da tempo, come All Cats Are Grey, andando indietro nel tempo e interpretando canzoni che legano bene con quanto stiamo facendo adesso.
Userete ancora dei filmati, durante gli show?
No, non più. Abbiamo apportato delle modifiche allo stage-set, così che non sembri il solito palco con chitarre, basso, batteria, tastiere e amplificatori. Abbiamo un nuovo apparato di luci che pensiamo di utilizzare sfruttando le posizionichiave sul palco.
Sarete accompagnati in tour da qualche altro gruppo?
No. Abbiamo cercato per settimane uno “special guest”, ma senza successo. È molto difficile trovare un gruppo che si apprezza e che sia possibile portare in tour.
Ascolti musica a casa, e cosa ti piace in particolare?
Un po’ di tutto… in quest’ultimo periodo ho comprato molti album della Say-Disc, che pubblica lavori che spaziano dalla
musica d’orchestra a quella per bambini. Sono un po’ stufo delle novità: ho passato circa una decina di mesi ascoltando tutte le ultime uscite alla ricerca di una comune direzione, di qualcuno in gamba con cui suonare, ma sembra che rispetto a quando cominciammo non sia successo proprio nulla, tutto è così stagnante e penso che ciò sia dovuto alla moda che oggi diventa sempre più importante per un gruppo. Comunque, mi piacciono molto i My Bloody Valentine, così come gli All About Eve. Ma c’è tanta musica – vecchia musica, voglio dire – che è molto più facile scoprire un buon disco di tanti anni fa passato inosservato. Quando fai troppa attenzione a recensioni, segnalazioni e robe simili, sei sempre tentato di ascoltare solo “quelle” cose e non il gruppo sconosciuto che scopri in una pila di vecchi Lp.
Qualcuno del gruppo ha in cantiere progetti personali, e quanto DISINTEGRATION può essere considerato un album dei Cure, sentite anche le voci di un lavoro da solista?
No, è un album dei Cure. E vero, ho realizzato dei demo per conto mio, ma questo non significa che sia in grado di ricavarne un disco. Le canzoni sono sia per i Cure che per me, è ovvio che quando componi solo sul pianoforte non vai dagli altri membri della band a chiedere delle altre parti strumentali, vanno bene così come vengono fuori, senza altri strumenti dentro. In ogni caso, è meglio essere in un gruppo che stare da soli. Nessuno di noi ha progetti personali, al momento, solo Boris Williams ha suonato nell’ultimo album di Ian McCulloch.
Cosa fai durante il tempo libero?
Niente. Sto a casa a leggere, rimango lì cercando di infischiarmene di tutto il resto. Non esco molto, l’ultima cosa che pensi di fare quando sei in un gruppo è di uscire e andarti a divertire in giro.
I Cure non sembrano molto impegnati in concerti di beneficenza.
Abbiamo fatto delle cose del genere in passato, ma non tendiamo a partecipare a ogni manifestazione come il Live-Aid o raduni simili. Non siamo un gruppo che appare sempre in televisione e penso che anche agli occhi della gente appariamo diversi, di un’area differente. Mi lascia un po’ perplesso l’idea di qualcuno che fa parte di un gruppo impegnato in qualcosa che è al di fuori del gruppo.
Consideri il mercato americano attraente o pericoloso?
Pericoloso. Penso che gli Stati Uniti siano l’unico luogo al mondo dal quale si rischia di ritornare in qualche maniera cambiati.
C’è così tanta gente… le reazioni sono isteriche, per loro tutto ciò è naturale, normale, e questo ti colpisce, tutti vogliono toccarti, ma in molti posti l’atmosfera della gente è assolutamente fantastica, come in Sudamerica, dov’è stato divertente e triste allo stesso tempo: suonavamo in location immense davanti a platee incredibili, alloggiavamo in hotel super lussuosi mentre appena dietro l’angolo c’era la gente più povera che abbia mai visto. È stato un po’ imbarazzante, un’esperienza strana.
Da «Velvet» n. 8, maggio 1989.