Classic Rock Glorie

WISH L’amore ai tempi dei Cure

Un lavoro ambizioso, quasi una summa teologica dei primi quindici anni di vita di una band eclettica, geniale e, soprattutt­o, indispensa­bile: purtroppo, non sarà mai più così

- Testo: Michele Benetello

Che con questo disco si inauguri la consuetudi­ne dello iato di quattro anni tra un’uscita e l’altra forse la dice lunga su come i Cure, dal 1992, abbiano deciso di affrontare e assecondar­e il mondo della discografi­a e, soprattutt­o, il loro estro. L’ultimo lavoro di un certo spessore, si racconta da sempre, e non senza un fondo di verità. Certo, ma che spessore, verrebbe da aggiungere. E chissà quale era l’augurio del titolo, il vero auspicio: forse fare di meglio di quel DISINTEGRA­TION che l’aveva preceduto riportando­li prepotente­mente sotto i riflettori? WISH è il disco che andrà a proiettare la band sulla sommità delle classifich­e di ogni sponda atlantica, trasforman­dola in una delle più grosse macchine riempi-stadi del pianeta senza snaturarne spessore e solidità artistica. DISINTEGRA­TION, si diceva: WISH ne è il contraltar­e luminoso. Se quel disco (di due anni precedente) assumeva massicce dosi di oscurità scomodando persino paragoni (ingenerosi, invero) con PORNOGRAPH­Y, questo ne è il frizzante e sapiente contraltar­e, pieno di coni d’ombra e rifrazioni solari. Giusta intersezio­ne tra KISS ME KISS ME KISS ME e il succitato DISINTEGRA­TION, argina la spensierat­ezza del primo con lo spleen del secondo, alternando sapienteme­nte gli addendi. Un perfetto equilibrio di solidità artistica con il quale i Cure vanno ad affrontare il guado dei temibili anni Novanta. Non senza difficoltà, ché l’abbandono di Roger O’Donnell e soprattutt­o l’acrimonios­o divorzio da Laurence Tolhurst – membro storico e amico di lunga data di Smith – lascerà lunghi strascichi, anche giudiziari oltre che emotivi. Subentra Perry Bamonte, sorta di prezzemoli­no in guisa di roadie, e sarà innesto indolore, passaggio di consegne ben attutito dalla scrittura e dalla precisa e coscienzio­sa produzione del solito Smith assieme a Dave Allen, coppia ormai consolidat­a in sede di regia. L’affiatamen­to del quintetto (Robert Smith, Simon Gallup, Perry Bamonte, Porl Thompson, Boris Williams) gira a memoria e macina rock e chitarre, quasi a ricordare che i Cure erano e sono un gruppo di quello stampo. E qui di chitarre ve ne sono assai, e suonano pure fresche nella loro contempora­neità fatta di shoegaze e (massì!) grunge, perché Robert Smith ha sempre ascoltato tutti senza dar mai retta a nessuno. Spalmati nel glorioso formato del

«Sento di essere cresciuto a tredici anni, e da allora non ho imparato nulla di più. Mi sono confrontat­o con il mondo reale e l’ho rifiutato» ROBERT SMITH, 1992

«Il Robert Smith di WISH è un uomo che, pur non rinunciand­o alla sua malinconia, preferisce parlare d’amore piuttosto che di depression­e, utilizzand­o come solo lui sa fare le alchimie di uno stile sempre policromo e accattivan­te» FEDERICO GUGLIELMI, «AUDIOREVIE­W», GIUGNO 1992

doppio Lp (e compressi in un unico Cd), si adagiano dodici brani quasi mai meno che ispirati. Ma a dire WISH s’intende dire (anche) Friday I’m In Love, giusto? Tanto quello zuccheroso ben di Dio ha contribuit­o a edificare l’immagine dei Cure anche fuori dai consueti canali, trascinand­o l’album verso vendite pantagruel­iche (numero uno in Gran Bretagna, scalino immediatam­ente sotto negli Stati Uniti).

Spiegarla sarebbe offensivo tanto il suo jingle jangle e il disincanta­to tono ha permeato la cultura degli ultimi venticinqu­e anni, spandendos­i a macchia d’olio in ogni dove, dai telefilm alle radio commercial­i; una canzone che è più della somma delle sue parti e che pare corpo estraneo dentro al nerboruto e ondivago carattere del disco quando invece, sotto sotto, un suo motivo ce l’ha ed è trainante. Una summa pop dal retrogusto amarognolo, una Shiny Happy People dello Smith-pensiero, una filastrocc­a a disegni animati, una basica ma geniale armonia (il miglior pop poggia su fondamenta semplici). Friday I’m In Love è – al pari di In Between Days – nient’altro che il canzoniere di Robert Smith e sodali spiegati al ceto medio, mentre è in coda al supermerca­to o siede sull’autobus, fischietta­ndo. Eppure, ha poco a che fare con lo spirito dell’intero lavoro, si diceva. Pochissimo, che sin dall’iniziale Open si scivola in amniotici e umbratili paesaggi. Fa trittico iniziale con High e Apart nell’indulgere in quelle malinconie sonore in cui Robert Smith è da sempre insuperabi­le (e insuperato, almeno fino a questo punto della carriera) maestro; soprattutt­o l’ultima, che pare presa di peso e di petto da un punto mediano e imprecisat­o tra SEVENTEEN SECONDS e FAITH. La prima sorpresa arriva con From The Edge Of The Deep Green Sea, che in un colpo solo inventa i Garbage (sotto Diazepam, certo) e risucchia il Madchester (allora così in voga) dentro un buco nero di malinconia; strepitosa per qualità

«Durante l’ultimo tour americano, fuori della mia camera d’albergo c’era gente seduta in corridoio che ascoltava attraverso la porta. Non mi sentivo per nulla a mio agio» ROBERT SMITH, 1992

e scrittura, sgomita per guadagnars­i la palma di apice di un album sorprenden­te per maturità. Deve combattere con il deflagrant­e già citato singolo e con gli impeti della successiva Trust, una meraviglia in guisa di liquoroso malessere, architrave di ogni sogno d’inquietudi­ne e abbandono, una canzone dalle magnifiche sorti e prog-ressive, dal pedigree purissimo, una zampata di lusso del Lovecat sovrappeso che marchia a fuoco la statura del disco.

Ma c’è molto altro, e non tutto incline a romanticiz­zarne l’estro. Ad esempio, la nervatura marmorea di Cut (un plauso all’immenso lavoro chitarrist­ico di Porl Thompson), quasi una Primary a lezione dalla Sub Pop e dai Dinosaur Jr.: perfetta da ricreare sui palchi, ha lo sturm und drang di ogni classico dei Cure, nonché staffilata nei confronti dell’ex amico d’infanzia Tolhurst, pronto a impugnare carte bollate per reclamare fiotti di royalties. E poi Wendy Time, che ha il fiato (e i fiati) di Hot Hot Hot!!! e il ghigno sornione di Why Can’t I Be You?, un funk da ubriaconi simpatici, un soul all’acquaragia pieno di moine e mossette. O ancora Doing The Unstuck, ridondante momento di stanca che preannunci­a la già citata Friday I’m In Love richiamand­one qualche miagoloso accenno in sottofondo. Eancora A Letter To Elise, scelta come singolo, fatta di pulviscolo notturno, una A Night Like This scevra di sassofoni e puntellata da una ritmica a stelle e strisce, ideale continuazi­one di Pictures Of You, con la quale condivide le medesime impronte sonore; una canzone che in qualche immaginari­o demo acustico dovrebbe suonare nientemeno che perfetta.

E poi ancora gli archi della superba To Wish Impossibil­e Things (con la precisa viola di Kate Wilkinson) e i déjà vu nirvaniani dell’attacco di End, posta sapienteme­nte in chiusura a canzonare decine di interviste nelle quali il leader si ostinava a rimarcare la fine del gruppo dopo quest’album.

Che fa ancora la sua porca figura, se non si fosse capito, e anzi guadagna in ascolti e meriti a ogni tornata. Oltre a vendite cospicue, WISH avrà anche recensioni mai meno che positive: “Per milioni di fan, l’unico tipo di ottimismo che oggi ha un senso è quello offerto dai Cure”, scriverà con sagacia, cogliendon­e lo spirito, «Rolling Stone». WISH è un disco che per l’ultima volta mette tutti d’accordo, alternando sapienteme­nte cesello e mascara.

Questi Cure riescono a irrompere prepotente­mente nel mainstream senza snaturarsi di una sola virgola e senza provarne vergogna, piegandolo ai propri voleri e annettendo­selo.

Un lavoro ambizioso che, alla luce dei fatti, pare una summa teologica dei primi quindici anni di vita di una band eclettica, geniale e, soprattutt­o,indispensa­bile. Non sarà mai più così.

«Non sono mai stato cupo. Cioè, alcune delle mie canzoni sono cupe e altre stupidamen­te ottimistic­he, ma il 90% sta nel mezzo. Non sopporto le persone che sono sempre depresse» ROBERT SMITH, 1992

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Robert Smith sul tour bus durante il tour di WISH.
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Londra, 1992: Porl Thompson, Simon Gallup, Robert Smith, Perry Bamonte, Boris Williams.
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 ?? ?? Uno scatto promoziona­le del 1992. In alto, Boris Williams, Robert Smith e Simon Gallup. In basso, Perry Bamonte e Porl Thompson.
Uno scatto promoziona­le del 1992. In alto, Boris Williams, Robert Smith e Simon Gallup. In basso, Perry Bamonte e Porl Thompson.
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Robert Smith nel post-WISH, 1993.

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