WISH L’amore ai tempi dei Cure
Un lavoro ambizioso, quasi una summa teologica dei primi quindici anni di vita di una band eclettica, geniale e, soprattutto, indispensabile: purtroppo, non sarà mai più così
Che con questo disco si inauguri la consuetudine dello iato di quattro anni tra un’uscita e l’altra forse la dice lunga su come i Cure, dal 1992, abbiano deciso di affrontare e assecondare il mondo della discografia e, soprattutto, il loro estro. L’ultimo lavoro di un certo spessore, si racconta da sempre, e non senza un fondo di verità. Certo, ma che spessore, verrebbe da aggiungere. E chissà quale era l’augurio del titolo, il vero auspicio: forse fare di meglio di quel DISINTEGRATION che l’aveva preceduto riportandoli prepotentemente sotto i riflettori? WISH è il disco che andrà a proiettare la band sulla sommità delle classifiche di ogni sponda atlantica, trasformandola in una delle più grosse macchine riempi-stadi del pianeta senza snaturarne spessore e solidità artistica. DISINTEGRATION, si diceva: WISH ne è il contraltare luminoso. Se quel disco (di due anni precedente) assumeva massicce dosi di oscurità scomodando persino paragoni (ingenerosi, invero) con PORNOGRAPHY, questo ne è il frizzante e sapiente contraltare, pieno di coni d’ombra e rifrazioni solari. Giusta intersezione tra KISS ME KISS ME KISS ME e il succitato DISINTEGRATION, argina la spensieratezza del primo con lo spleen del secondo, alternando sapientemente gli addendi. Un perfetto equilibrio di solidità artistica con il quale i Cure vanno ad affrontare il guado dei temibili anni Novanta. Non senza difficoltà, ché l’abbandono di Roger O’Donnell e soprattutto l’acrimonioso divorzio da Laurence Tolhurst – membro storico e amico di lunga data di Smith – lascerà lunghi strascichi, anche giudiziari oltre che emotivi. Subentra Perry Bamonte, sorta di prezzemolino in guisa di roadie, e sarà innesto indolore, passaggio di consegne ben attutito dalla scrittura e dalla precisa e coscienziosa produzione del solito Smith assieme a Dave Allen, coppia ormai consolidata in sede di regia. L’affiatamento del quintetto (Robert Smith, Simon Gallup, Perry Bamonte, Porl Thompson, Boris Williams) gira a memoria e macina rock e chitarre, quasi a ricordare che i Cure erano e sono un gruppo di quello stampo. E qui di chitarre ve ne sono assai, e suonano pure fresche nella loro contemporaneità fatta di shoegaze e (massì!) grunge, perché Robert Smith ha sempre ascoltato tutti senza dar mai retta a nessuno. Spalmati nel glorioso formato del
«Sento di essere cresciuto a tredici anni, e da allora non ho imparato nulla di più. Mi sono confrontato con il mondo reale e l’ho rifiutato» ROBERT SMITH, 1992
«Il Robert Smith di WISH è un uomo che, pur non rinunciando alla sua malinconia, preferisce parlare d’amore piuttosto che di depressione, utilizzando come solo lui sa fare le alchimie di uno stile sempre policromo e accattivante» FEDERICO GUGLIELMI, «AUDIOREVIEW», GIUGNO 1992
doppio Lp (e compressi in un unico Cd), si adagiano dodici brani quasi mai meno che ispirati. Ma a dire WISH s’intende dire (anche) Friday I’m In Love, giusto? Tanto quello zuccheroso ben di Dio ha contribuito a edificare l’immagine dei Cure anche fuori dai consueti canali, trascinando l’album verso vendite pantagrueliche (numero uno in Gran Bretagna, scalino immediatamente sotto negli Stati Uniti).
Spiegarla sarebbe offensivo tanto il suo jingle jangle e il disincantato tono ha permeato la cultura degli ultimi venticinque anni, spandendosi a macchia d’olio in ogni dove, dai telefilm alle radio commerciali; una canzone che è più della somma delle sue parti e che pare corpo estraneo dentro al nerboruto e ondivago carattere del disco quando invece, sotto sotto, un suo motivo ce l’ha ed è trainante. Una summa pop dal retrogusto amarognolo, una Shiny Happy People dello Smith-pensiero, una filastrocca a disegni animati, una basica ma geniale armonia (il miglior pop poggia su fondamenta semplici). Friday I’m In Love è – al pari di In Between Days – nient’altro che il canzoniere di Robert Smith e sodali spiegati al ceto medio, mentre è in coda al supermercato o siede sull’autobus, fischiettando. Eppure, ha poco a che fare con lo spirito dell’intero lavoro, si diceva. Pochissimo, che sin dall’iniziale Open si scivola in amniotici e umbratili paesaggi. Fa trittico iniziale con High e Apart nell’indulgere in quelle malinconie sonore in cui Robert Smith è da sempre insuperabile (e insuperato, almeno fino a questo punto della carriera) maestro; soprattutto l’ultima, che pare presa di peso e di petto da un punto mediano e imprecisato tra SEVENTEEN SECONDS e FAITH. La prima sorpresa arriva con From The Edge Of The Deep Green Sea, che in un colpo solo inventa i Garbage (sotto Diazepam, certo) e risucchia il Madchester (allora così in voga) dentro un buco nero di malinconia; strepitosa per qualità
«Durante l’ultimo tour americano, fuori della mia camera d’albergo c’era gente seduta in corridoio che ascoltava attraverso la porta. Non mi sentivo per nulla a mio agio» ROBERT SMITH, 1992
e scrittura, sgomita per guadagnarsi la palma di apice di un album sorprendente per maturità. Deve combattere con il deflagrante già citato singolo e con gli impeti della successiva Trust, una meraviglia in guisa di liquoroso malessere, architrave di ogni sogno d’inquietudine e abbandono, una canzone dalle magnifiche sorti e prog-ressive, dal pedigree purissimo, una zampata di lusso del Lovecat sovrappeso che marchia a fuoco la statura del disco.
Ma c’è molto altro, e non tutto incline a romanticizzarne l’estro. Ad esempio, la nervatura marmorea di Cut (un plauso all’immenso lavoro chitarristico di Porl Thompson), quasi una Primary a lezione dalla Sub Pop e dai Dinosaur Jr.: perfetta da ricreare sui palchi, ha lo sturm und drang di ogni classico dei Cure, nonché staffilata nei confronti dell’ex amico d’infanzia Tolhurst, pronto a impugnare carte bollate per reclamare fiotti di royalties. E poi Wendy Time, che ha il fiato (e i fiati) di Hot Hot Hot!!! e il ghigno sornione di Why Can’t I Be You?, un funk da ubriaconi simpatici, un soul all’acquaragia pieno di moine e mossette. O ancora Doing The Unstuck, ridondante momento di stanca che preannuncia la già citata Friday I’m In Love richiamandone qualche miagoloso accenno in sottofondo. Eancora A Letter To Elise, scelta come singolo, fatta di pulviscolo notturno, una A Night Like This scevra di sassofoni e puntellata da una ritmica a stelle e strisce, ideale continuazione di Pictures Of You, con la quale condivide le medesime impronte sonore; una canzone che in qualche immaginario demo acustico dovrebbe suonare nientemeno che perfetta.
E poi ancora gli archi della superba To Wish Impossibile Things (con la precisa viola di Kate Wilkinson) e i déjà vu nirvaniani dell’attacco di End, posta sapientemente in chiusura a canzonare decine di interviste nelle quali il leader si ostinava a rimarcare la fine del gruppo dopo quest’album.
Che fa ancora la sua porca figura, se non si fosse capito, e anzi guadagna in ascolti e meriti a ogni tornata. Oltre a vendite cospicue, WISH avrà anche recensioni mai meno che positive: “Per milioni di fan, l’unico tipo di ottimismo che oggi ha un senso è quello offerto dai Cure”, scriverà con sagacia, cogliendone lo spirito, «Rolling Stone». WISH è un disco che per l’ultima volta mette tutti d’accordo, alternando sapientemente cesello e mascara.
Questi Cure riescono a irrompere prepotentemente nel mainstream senza snaturarsi di una sola virgola e senza provarne vergogna, piegandolo ai propri voleri e annettendoselo.
Un lavoro ambizioso che, alla luce dei fatti, pare una summa teologica dei primi quindici anni di vita di una band eclettica, geniale e, soprattutto,indispensabile. Non sarà mai più così.
«Non sono mai stato cupo. Cioè, alcune delle mie canzoni sono cupe e altre stupidamente ottimistiche, ma il 90% sta nel mezzo. Non sopporto le persone che sono sempre depresse» ROBERT SMITH, 1992