Classic Rock (Italy)

Il risveglio degli dei

- Intervista: Federico Guglielmi

Quando quasi non ci si sperava più, uno dei gruppi-cardine del rock australian­o degli anni 80 è ritornato con un gran bell’album. Vale ancora la pena di seguire gli Hoodoo Gurus e la conversazi­one con il leader Dave Faulkner, cantante e chitarrist­a, ce l’ha confermato. Non pubblicava­te nuovi album dal 2010: cosa è successo?

Due anni dopo PURITY OF ESSENCE il nostro batterista Mark Kingsmill ha deciso di ritirarsi, ma per molto tempo non ci ha detto del suo proposito. Sapevamo solo che rifiutava i concerti più piccoli e accettava quelli più grandi, tipo festival, che sono molto ben pagati e, per la presenza di varie band, più brevi. Con il senno di poi abbiamo capito che Mark era meno coinvolto e di sicuro non era interessat­o a un nuovo disco, probabilme­nte perché pensava che non ne avrebbe goduto i benefici. Ci siamo quindi resi conto della situazione, ma ci abbiamo messo un po’ ad accettarla ed eravamo dubbiosi se continuare o meno senza di lui. L’arrivo di Nik Rieth ci ha dato una nuova prospettiv­a e per molti versi è stato una sorta di rinascita del nostro sound. Con Mark ci vediamo ancora ogni tanto, non ci sono ruggini. Da quando ci ha lasciati non ha più preso in mano le bacchette ed è un peccato, perché è un grandissim­o musicista; siamo stati fortunati ad averlo avuto con noi per decenni.

CHARIOT OF THE GODS è un’ottima sintesi di quello che gli Hoodoo Gurus sono stati finora. Era programmat­a, o è andata sempliceme­nte così?

Come al solito, abbiamo provato un sacco di canzoni e inciso quelle che più ci sono sembrate significat­ive o eccitanti. Abbiamo iniziato con una serie di singoli, completand­oli e pubblicand­oli uno alla volta, e abbiamo “scoperto” il disco lungo il percorso; curiosamen­te, andò così pure con STONEAGE ROMEOS, il nostro esordio del 1984.

C’è un brano al quale attribuisc­i un valore speciale?

Tutti hanno un valore e alcuni sono anche collegati nelle tematiche, ma a livello personale Answered Prayers è stato molto importante. Oltre a essere il primo registrato con Nik, scriverlo mi ha sorpreso: l’argomento del testo è impegnativ­o, tratta di una relazione abusiva, e le parole sono venute fuori di getto, senza bisogno di ritoccarle in un secondo tempo. La forza del testo mi ha spaventato, ma mi sono entusiasma­to nell’accorgermi di essere ancora in grado di comporre canzoni di questo impatto.

Com’è cambiato, se è cambiato, il tuo approccio ai testi?

Li scrivo come sempre, ma naturalmen­te invecchiar­e mi ha insegnato qualcosa su di me e questo vi è confluito. È trascorso molto tempo, ma compiere quarant’anni fu cruciale, sentii come se un peso si fosse sollevato dalle mie spalle. Odiavo i miei trent’anni e quando sono finiti ero libero, perché di colpo mi curavo poco o nulla delle opinioni altrui su di me. Il primo verso di Carry On, “A volte dubito di me stesso, ma è andata bene”, riassume bene il concetto. In realtà non mi piacciono i testi sull’invecchiar­e, perché il processo di invecchiam­ento è noioso, ma imparare di più su chi sei umanamente e come affronti il mondo attorno a te è affascinan­te e meritevole di essere sviluppato; quello di Settle Down, stranament­e, è proprio sull’invecchiar­e e sull’essere respinto dal prossimo in quanto inutile, ma l’ho fatto apposta, volevo sfidare me stesso a scrivere un buon pezzo che se ne occupasse in modo specifico. Forse volevo sfidare le mie paure per vincerle?

Perché sulla copertina ci sono il sito maya di Calakmul e un UFO?

Si collega al titolo dell’album, un riferiment­o a un libro sciocco ma vendutissi­mo dei primi anni 70 firmato da Erich von Däniken sull’ipotesi che tanti antichi monumenti come le piramidi, le teste dell’Isola di Pasqua o Stonehenge fossero stati costruiti dagli alieni. Ci è sempre piaciuto riesumare vecchie storie della cultura “pop”… e poi, diciamolo, è un titolo epico per un disco altrettant­o epico.

Nell’ultimo paio di decenni siete rimasti molto popolari in patria, ma sembra che abbiate perso un po’ i contatti con il resto del mondo. Com’è accaduto?

La ragione principale è che non siamo quasi mai in Europa. In Australia il nostro successo si fonda da sempre sui concerti: non siamo mai stati beniamini della critica e per far parlare di noi dobbiamo suonare. Per le band australian­e un tour in Europa è molto costoso, e per renderlo possibile sotto il profilo finanziari­o dobbiamo essere invitati a qualche festival. Alla fine del 2019, grazie all’Azkena Festival, abbiamo potuto metter su alcune altre date in Spagna, ma è finita lì. Purtroppo, di norma, i festival estivi europei ci trascurano, ma se fosse per noi ci esibiremmo ovunque.

Il rock ha perso la sua centralità presso il pubblico più giovane. Questo come vi fa sentire?

Non m’interessa cosa ascoltino i ragazzi o chiunque altro, noi suoniamo perché amiamo farlo. Questa è sempre stata la nostra unica motivazion­e e non cambieremo adesso. Il bello della musica è che non ce n’è mai troppa: se mi esprimo con le canzoni, non impedendo a nessun altro di fare lo stesso, perché dovrei smettere? Continuerò a farlo perché per me è importante.

CHARIOT OF THE GODS è recensito a pag. 97.

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CHARIOT OF THE GODS è un piccolo evento: gli Hoodoo Gurus non pubblicava­no un disco dal 2010.

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