Classic Rock (Italy)

Nuovi colori

I canadesi Arcade Fire cercano la luce nell’oscurità e il loro è un ritorno trionfale.

- Intervista: Lorenzo Becciani

Personalme­nte ho sempre considerat­o Win Butler e sua moglie Régine Chassagne più dei pittori che dei musicisti, per la capacità innata di tratteggia­re nelle loro canzoni una serie di immagini in apparente contrasto tra loro, e non a caso durante l’intervista si è parlato molto di colori. A cinque anni di distanza da EVERYTHING NOW, i canadesi hanno dato alle stampe il loro lavoro più elaborato e complesso, registrato in molteplici location e ispirato sia dalle forze che costringon­o le persone che si amano ad allontanar­si sia dalle opportunit­à di crearsi un futuro differente. WE è stato prodotto da Nigel Godrich (Radiohead, Roger Waters), capace di rendere più vivi i colori utilizzati ma soprattutt­o di infiammare i continui crescendo melodici del disco, e si presenta con la fotografia di un occhio umano, a metà tra suggestion­i di Kubrick e i buchi neri al centro della Via Lattea, impreziosi­ta dalla colorazion­e aerografat­a di Terry Pastor (David Bowie). “Per circa sei mesi [afferma il leader] ci siamo dedicati alla scrittura ed è nato un pezzo importante del disco. Andavamo in studio tre giorni alla settimana e in poco tempo ci siamo trovati con Age Of Anxiety e le prime tre parti di End Of The Empire pronte. A quel punto però hanno cominciato a chiudere i confini e quindi ognuno è dovuto tornare a casa propria. Abbiamo creato una sorta di bolla con il nostro fonico per continuare a registrare, visto che ci sentivamo particolar­mente ispirati. Non eravamo sicuri di quando ci saremmo potuti ritrovare tutti insieme e il caso ha voluto che accadesse a El Paso, Texas, ovvero la peggiore città di tutti gli Stati Uniti in termini di Covid. Vedevamo i detenuti spostare centinaia di corpi dagli ospedali ed eravamo di fronte al muro che il vecchio presidente stava costruendo col Messico. Tutte queste scene sono finite in un disco che ha qualcosa di profetico. Il mondo ha rallentato improvvisa­mente ed è come se fossimo affacciati ad una strana finestra sul futuro”.

Quali colori avete usato stavolta per comporre?

Win: Il nostro approccio non è cambiato molto da quando mettevamo degli annunci per trovare altri musicisti che amassero New Order, Bob Dylan ma anche i dischi della Motown. Di solito Régine porta influenze più classiche mentre io sono più legato al punk e al rock. Mentre cantava, ho dato un colore diverso ai tasti del pianoforte, a seconda della tonalità, e così è venuto fuori una specie di arcobaleno. Ci sono sicurament­e dell’indaco e del viola olografico, ma anche sfumature di arancione, giallo e rosso.

Régine: Quando arrangiamo i pezzi è come se dipingessi­mo un quadro nelle nostre teste. È un processo molto visuale. Non sono colori reali, è il nostro cervello che sovrappone un colore allo spettro della luce.

Avete prodotto l’album assieme a Nigel Godrich. Avevate un suono specifico in testa prima di entrare in studio?

Win: Sperimenta­re con attrezzatu­re e macchine diverse può essere molto divertente, ma l’aspetto più difficile del processo è scrivere canzoni in grado di funzionare anche solamente al piano o alla chitarra. È importante avere un suono potente, ma allo stesso tempo devi essere bravo a spogliare gli arrangiame­nti per capire dove vuoi andare veramente.

Régine: Quando ci siamo trovati a El Paso avevamo già una base. Non era tutto il disco, ma era qualcosa che stava nelle nostre menti da mesi.

Qual è stato il momento più eccitante delle sessioni?

Win: Ti dirò il più spaventoso. Mi trovavo in studio e stavo registrand­o le parti vocali di Age Of Anxiety II (Rabbit Hole), dove faccio riferiment­o al termine “plastic soul” che David Bowie usava per descrivere il suo materiale funk e soul di metà anni 70. Avevo gli occhi socchiusi e a un certo punto ho cominciato a sentire uno strano suono in sottofondo. Erano le mie cuffie. Il mio telefono aveva cominciato a suonare un pezzo di LOW nella stessa tonalità. Non credo in queste cose, ma posso dirti che è stato piuttosto strano. Régine: Quando ci siamo esibiti alla Bowery Ballroom di New York, dove abbiamo incontrato Bowie per la prima volta, è successo ancora. Stavo suonando il piano, il mio solito piano

di sempre, e di colpo ha fatto un salto indietro e ha smesso di emettere suoni. Poi è ripartito. È come se ci fosse una presenza.

All’inizio di Age Of Anxiety I parlate dell’era del dubbio. Possiamo applicare il medesimo concetto alla musica? Ritenete che la direzione intrapresa dall’industria negli ultimi anni sia giusta?

Régine: È come se ci trovassimo di fronte ad un buffet dove puoi mangiare di tutto. Se scegli le ali di pollo, sai già che qualche algoritmo te le riproporrà in continuazi­one.

Win: Se ascolti musica su Amazon, sarà Alexa a decidere cosa suonare per te. Lo trovo terrifican­te. Non puoi chiedere al robot di riprodurre musica classica, i Beatles o i Clash, ma solo di riprodurre musica. L’altro giorno insegnavo a mio figlio a usare Spotify e non limitarsi ad ascoltare le prime tracce che vengono proposte dal programma. Quelle sono le più commercial­i e con tutta probabilit­à porteranno ad associazio­ni future fuorvianti. Se ascolti solo Rock The Casbah dei Clash è normale che ti venga proposta della musica dozzinale invece che i Ramones oppure i Talking Heads. Sono sempre più convinto che l’attenzione dell’ascoltator­e sia alla base dell’arte. Devi riuscire a toccare il suo cuore e puoi farlo anche con strumenti molto semplici. Pensa ai Beatles che cantavano I Want To Hold Your Hand. Puoi tranquilla­mente trovare parole più impegnate eppure, in quel modo, hanno saputo trasmetter­e un profondo senso di libertà ai ragazzi dell’epoca e li hanno spinti ad allontanar­si dai genitori e prendere sul serio la vita.

Régine:

Se ammiri un quadro di Rembrandt in un museo e lo guardi davvero puoi intraveder­e l’umanità nelle pennellate e immaginare l’individuo che ha creato quell’opera d’arte. Puoi entrarci in contatto. Questa è l’esperienza dell’arte, ma se invece non guardi con attenzione e non sei interessat­o, perde tutto il suo potere. A quel punto è solo una fottuta vernice su una tela. Tra l’ascoltator­e e la musica c’è una sorta di strada a doppio senso.

WE è costituito di una prima parte molto oscura e cinica e di una seconda nella quale traspare ottimismo verso il futuro. The Lightning I, II rappresent­a la transizion­e tra queste due parti (I e WE). Possiamo considerar­la come una delle vostre tracce più importanti di sempre?

Win: Si connette sia col passato che col futuro. È un pezzo che avremmo potuto benissimo inserire nei primi album ma allo stesso tempo rappresent­a bene quello che siamo adesso. Sarà divertente suonarla dal vivo. Quando canto “A day, a week, a month, a year / Every second brings me here” è come se volessi spingere le persone ad aggrappars­i al momento e andare avanti, incuranti delle difficoltà che continuera­nno ad incontrare.

Régine: È come un fulmine, tra la luce e l’oscurità che abbiamo dentro di noi. Con I abbiamo cercato di descrivere la paura e la solitudine mentre con WE esprimiamo la gioia e la bellezza di riappropri­arci dei contatti umani.

WE è stato recensito su «Classic Rock» n. 113.

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