I due anni più difficili della nostra vita
Il trasferimento in California, la pandemia, l’amicizia con Angel Olsen, le gioie familiari e quel lato oscuro che ogni tanto suona alla porta. Sharon Van Etten ha appena pubblicato il suo “Covid album”.
Una nuova vita in California circondata dall’affetto della famiglia, un sesto album (WE’VE BEEN GOING ABOUT THIS ALL WRONG) appena pubblicato e una tournée mondiale sui blocchi di partenza (per non parlare di una carriera da attrice che potrebbe decollare): le cose non potrebbero andare meglio per la quarantenne introspettiva songwriter del New Jersey. Solo in apparenza, però. La realtà è molto più complicata. Più “traumatica”, come ci ha raccontato la stessa Sharon.
Sono passati 3 anni dal tuo precedente album, REMIND YOU TOMORROW, ma nel frattempo sono successe tante cose e tu sei sempre stata attivissima. In primo luogo, nel 2019 ti sei trasferita a Malibu, in California. Come mai?
Per la famiglia, innanzitutto [Sharon ha un compagno e un figlio di 5 anni, ndr]. Avevo vissuto a New York negli ultimi 15 anni. Ma volevo più spazio, più tempo per riflettere, e potermi godere le cose per cui avevo lavorato duro. Inoltre volevo avere un giardino, una villetta tutta mia, e continuare a fare quello che stavo facendo, però ai miei ritmi. E a L.A. tutto questo l’ho trovato.
Poi è arrivata la pandemia. È stata dura per te? Dai testi del tuo nuovo lavoro si direbbe di sì.
Credo che tutti noi abbiamo avuto i nostri alti e bassi negli ultimi due anni. Ma per tutte le persone che (come me) hanno sofferto di traumi in passato, so per certo che il lockdown ha scatenato un sacco di rivolgimenti in più. Perché ti metti a riesaminare ciò che uno specifico trauma ha significato per te, e come ha “ancora” un
«Purtroppo ho una personalità tendente alla dipendenza»
effetto su di te a tutt’oggi sulla tua sicurezza personale e sul tuo grado di controllo sulle situazioni. In tutte le persone che hanno subìto dei traumi, il “controllo” e la “sicurezza” sono le due questioni primarie della vita.
Ho letto un’intervista in cui raccontavi che in lockdown ti sei ritrovata brilla a spegnere e accendere sigarette: quindi l’hai perso, in parte, il controllo di cui parli…
(ride, ndr) Sì, ci sono stati questi momenti in cui mi sono ritrovata a bere di pomeriggio, o a sfumacchiare di nascosto. Non sono queste le mie peggiori debolezze, però, essere “beccata” da mio figlio nel mezzo della giornata, nell’orario sbagliato… Purtroppo ho una personalità tendente alla dipendenza. Allo stesso tempo, però, ne sono consapevole. Il mio compagno è molto paziente e mi dà supporto. Ne parliamo spesso. Ma ciò non vuol dire che io sia stata perfetta durante quel periodo. Ho avuto bisogno di qualche “stampella”, per così dire.
In quei giorni sei stata comunque molto attiva sul piano artistico: tra le varie cose, nel maggio 2001 hai pubblicato un bellissimo duetto country folk, Like I Used To, con Angel Olsen. Com’è nata la collaborazione?
Avevamo appena inciso insieme una cover dei Velvet Underground [Femme Fatale per l’album tributo I’LL BE YOUR MIRROR, ndr]. Non ci conoscevamo tanto, ma poi durante il lockdown l’ho chiamata diverse volte per sapere come stava facendo fronte alla situazione, cosa trovava d’ispirazione, che cosa la stava aiutando durante quel periodo… E dopo una di queste conversazioni ho trovato il coraggio di inviarle il demo di una canzone che non avevo ancora finito, dicendole: “Te la puoi prendere se vuoi, perché penso che abbia il tuo tipo di sound”. Le è piaciuta molto e la cosa si è evoluta con noi che l’abbiamo trasformata in un duetto. E quindi faremo sicuramente qualcos’altro insieme
in futuro.
Poi tre mesi fa hai fatto uscire due nuovi brani, Porta e Used To It. Si pensava che facessero parte del nuovo album, ma non è così. Come mai sono rimasti fuori dal disco?
Volevo, in qualche modo, “sfidare” i miei fan, facendogli capire che stava arrivando della nuova musica, ma senza “bruciare” il nuovo album. Quelle due canzoni sono state registrate mentre stavo lavorando all’album, quindi ne fanno in qualche modo parte. Perché, vedi, è difficile scegliere le canzoni da includere in un album. Io ne ho scritte 20 e registrate 16. Dopodiché ho scelto quelle che stavano bene insieme. Credo che ci debba essere una qualche sequenza, e se una canzone non c’entra niente va lasciata fuori, non è che mi si spezzi il cuore se non fa parte del disco.
In effetti, la “sequenza” nel disco c’è: è come un racconto che si dipana.
Tutte queste canzoni sono state registrate durante il periodo d’isolamento. Ho cercato di catturare quel periodo – come se fosse una capsula del tempo – dal suo inizio alla sua fine. Collettivamente abbiamo tutti passato giorni difficili e volevo che le
persone non si sentissero così sole, che potessimo fare un “viaggio emozionale” insieme. Un sacco di persone cercano di evitare di parlare del Covid, ma in verità è ancora qui tra noi. C’è gente che dice: “È finito tutto e tu hai fatto un altro disco sul Covid?” (ride, ndr). Ma se sei onesto con te stesso, il Covid è ancora in giro e se componi una canzone in questo periodo, è una Covid song. E verrà fuori un Covid album. Perché questa è l’epoca del Covid. Non lo puoi ignorare.
E cosa mi dici del titolo WE’VE BEEN GOING ABOUT THIS ALL WRONG?
Deriva da The Sand Lot [in italiano I ragazzi vincenti, ndr], che è il film preferito di mio figlio. Parla di un ragazzino che cerca di inserirsi in una nuova città, e stringe amicizia con una squadra di baseball. La squadra gioca nei pressi di una discarica, e c’è questa palla che viene colpita, supera la recinzione, e loro devono cercare di recuperarla. Però nella discarica c’è un terribile cane super aggressivo. Loro devono riprendersi la palla con ogni mezzo. Le provano di tutte, e alla fine uno degli ultimi tentativi che fanno, è usare questa stramba invenzione: una specie di aspirapolvere che risucchi la palla facendola passare sopra la recinzione. Ma arriva il cane, che “morde” l’aspirapolvere e lo fa esplodere in faccia ai ragazzi ricoprendoli di sporcizia. E il protagonista squadra i suoi amici e gli dice in tono impassibile: “Abbiamo usato un metodo tutto sbagliato”. Ricordo di averlo guardato con mio figlio durante il lockdown: mi sono fatta una risata ma poi all’improvviso ho avuto un moto di commozione, per via del sentimento che esprimeva. Perché uno prova e riprova, ma poi ci sono sempre questi ostacoli. Pensi di star facendo la cosa giusta, ma poi succede qualcosa che non ti aspetti. E tuttavia, devi continuare ad andare avanti. Quindi, [il titolo] è una combinazione di diverse cose: del modo in cui stavo vivendo la mia vita, del modo in cui lavoravo, di come mi rapportavo al mondo… E riguarda me, ma tutti quanti, credo – in modi differenti – si sono messi a ripensare a come stavano vivendo.
In passato hai detto che la musica per te è una sorta di terapia. È ancora così? Non dovresti esserti più serena ora che hai messo su famiglia e che lavorativamente hai molte più certezze?
Ma no, non sono per niente “serena” (ride, ndr). Mio figlio (per quanto sia meraviglioso) ha esattamente l’effetto opposto su di me! La musica rappresenta ancora per me una forma di “catarsi”, e lo sarà sempre. Sia che io la condivida e la diffonda, o che la tenga nel cassetto, come capita qualche volta. E, anche se ho condiviso pensieri piuttosto intensi su questo disco, ti assicuro che vi ho risparmiato i più scuri (anzi, neri come la pece), di altre canzoni che non ho inciso. Al di là del fatto che li condivida o meno, ne ho bisogno per me stessa. Ho bisogno di far uscire tutto all’esterno quando sento che arriva l’oscurità… È allora che sento l’impulso di suonare e di cantare per far uscire quel “qualcosa” fuori da me. E penso che non mi passerà mai.