COVER: “Coprire” e (ri)scoprire una canzone 2a PARTE
Fare, disfare, rifare: la storia delle cover nel rock e nella popular music è un modo di far proprio qualcosa che apparteneva non solo a qualcun altro, ma a un altro stile, un altro tempo, un’altra idea della musica e della vita. II caso My Way.
Allo stesso tempo è importante ricordare che le cover hanno una loro precisa funzione anche nelle lotte in America per la conquista dei diritti civili. Riproporre una canzone legata ai neri e alle loro richieste di dignità e rispetto diventa immediatamente un atto di solidarietà e di vicinanza antirazzista. Il caso più interessante è forse quello dei Clash, che negli anni Settanta propongono due cover di reggae songs. La prima e più famosa è un brano del giamaicano Junior Murvin, Police & Thieves, che i Clash incidono nel loro album di debutto. Una canzone che parla di scontri di strada e della brutalità della polizia, cantata da Murvin nel suo solito stile da falsetto singer e subito ben accolta dai ragazzi inglesi. Ma sarà la versione dei Clash a riprenderla in chiave antirazzista, e a portarla alla gloria, trasformandola in un vero e proprio inno di rivolta. Il tutto all’indomani degli scontri tra neri e polizia al carnevale di Notting Hill, in cui sia Joe Strummer che Paul Simonon sono stati coinvolti in prima persona. Sarà il primo esempio di punk reggae. Interessante anche l’altro brano, Armagideon Time, di Willie Williams. Un pezzo quasi militante che viaggia tra guerra e apocalisse, e che i Clash mantengono nella stessa scura sobrietà, solo pompando ancora di più il basso dub dell’originale. In zona inglese c’è anche da ricordare la strana avventura (e il successo internazionale) di Tainted Love, un brano registrato nel 1964 dalla cantante soul Gloria Jones, fortemente influenzato dal suono della Motown, ma che non trova la strada del successo. Riscuote però una buona accoglienza tra i giovani di quel movimento musicale che nei tardi anni Sessanta invade i pub dell’Inghilterra del Nord, e che si chiamerà appunto Northern Soul. Ed è lì che lo trovano nel 1981 i due Soft Cell, Marc Almond e David Ball, e lo registrano con un suono completamente stravolto rispetto alla Jones: cioè voce, synth e drum machine. Un arrangiamento che tuttavia si muove all’interno della stessa ossessione erotico/tossica dell’originale.
Stessa cosa per quanto riguarda una serie di problematiche conflittuali legate alla religione (i Led Zeppelin che rifanno nel 1976 Nobody’s Fault But Mine, portata al successo da Sister Rosetta Tharpe negli anni Quaranta), all’omosessualità o a ruoli sessuali alternativi (Janet Jackson che nel 2000 ricanta Tonight’s the Night, hit anni 70 di Rod Stewart) oppure legati all’identità nazionale ed etnica (Changes di Bowie riproposta splendidamente in portoghese da Seu Jorge). In tutti e tre i casi, la cover viene realizzata più o meno trent’anni dopo l’uscita dell’originale, e questo mette ancora più in evidenza la grande differenza (generazionale) che passa tra le due canzoni, a conferma di un una diversa mentalità, e di una diversa ricerca di libertà e cambiamento che passa anche attraverso la musica.
Da qui anche una costante dialettica che si stabilisce tra
due parole legate all’universo giovanile che tra l’altro hanno in comune la stessa radice: “genere” e “generazione”. Che è poi il rapporto contraddittorio tra un bisogno profondamente radicato di appartenenza e d’identificazione (a una comunità, a un genere musicale, a una generazione) e allo stesso tempo il bisogno di differenziarsi, di liberarsi da ogni forma di controllo da parte dei genitori come della società dominante in generale. E alla fine succede che ogni generazione ha le sue canzoni, i suoi generi musicali e anche le sue cover. Sono infatti poche le canzoni che riescono a rimanere in vita nel tempo, e se ci riescono è anche grazie alla rivitalizzazione attuata dalle varie cover. Una di queste è sicuramente My Way. Vediamo allora di capire, di rimettere insieme la storia incredibile e complessa di questo brano e il suo cambiare ogni volta di significato col cambiare delle generazioni e degli esecutori delle sue svariate e infinite cover: Sinatra, Nina Simone, Sid Vicious, Arturo Sandoval, Pavarotti, Aretha Franklin e tanti altri. E ciò a partire dalla sua stessa invenzione come “remake transculturale” del suo antecedente francese, la canzone Comme d’Habitude portata al successo da Claude François. Anche in questo percorso è importante tenere ben presente il contesto storico e culturale. Che è, all’inizio, quello dei due Kennedy, il presidente John e il fratello Robert: una fusione di giovinezza e potere e una voglia di vita (dopo la guerra) che non potevano non catturare i giovani della nuova America. “Gli occhi da ragazzo – scrive ancora Schiffer – e il sorriso a trentadue denti di Kennedy, la sua folta capigliatura quasi alla Elvis, le sue strette cravatte nere e gli abiti neri attillati erano tanto vicini all’uniforme di un liceale cattolico quanto a un senatore emergente del Massachusetts. Anche dopo l’assassinio di Kennedy, i mod britannici seguivano ancora quel modo di vestire, quasi un’uniforme per quei ragazzi che stavano entrando nella vita e non ne volevano sapere né di diventare adulti né tantomeno di crearsi una carriera da seri professionisti”.
Le cover e la vita
Ciò accade anche perché attorno ai Kennedy si forma una piccola comunità di giovani uomini e donne destinati a lasciare una traccia profonda nel tempo (anche grazie a My Way). C’è Sinatra che è anche il capo della banda di amici più cool e sfacciati della storia dell’intrattenimento americano, il Rat Pack. Cioè Frankie, Sammy Davis Jr, Dean Martin, Joey Vescovo e Peter Lawford (i membri del club). E poi i loro sodali, tra i quali John Kennedy, Shirley McLaine e Sam Giancana, il boss della mafia. La loro roccaforte: Las Vegas. I loro interessi: le feste, le ragazze, i fan, i film e la musica. Ricchi, belli, talentuosi, potenti, teppisti, eleganti, questo branco di “ratti” ha regalato sogni a tut
«Sono poche le canzoni che riescono a rimanere in vita nel tempo, e se ci riescono è anche grazie alle cover»
ta l’America di fine anni Sessanta. E Sinatra è il personaggio che permette al giovane presidente di collegare il potere ai giovani. Avviene nell’estate del 1969, quando per la prima volta Frankie canta My Way al Caesar’s Palace di Las Vegas. “Doveva essere una canzone di addio, un’esibizione per una generazione divisa tra coloro che rinnegavano l’immagine del potere, si sballavano e ‘si ritiravano’, e coloro che mantenevano invece una certa fiducia nelle istituzioni e usavano il Martini lubrificante e automedicante come un mezzo per sopportare le proprie ansie e delusioni” (Schiffer). Saranno questi ultimi a sposarla e a farla diventare una delle canzoni più amate, cantate e suonate nel mondo (e naturalmente più “coverate”). Ma dobbiamo tornare un momento indietro a Parigi, dove un giorno arriva Paul Anka (siamo tra il ’67 e il ’68) e su un taxi ascolta Comme d’Habitude, musica di Jacques Reveaux e testo di Claude François. Il cantante canadese se ne innamora, acquista i diritti, ma prima di portarla al suo amico Sinatra, scrive un nuovo testo. Così da una banale storia di coppia travolta dalla routine di ogni giorno (“Mi alzo e provo a svegliarti / Ma tu resti a dormire come al solito”) viene fuori My Way (“And now the end is near / And so I face the final curtain…”), la storia molto americana di un self made man che parla agli americani (“For what is a man, what has he got? / If not himself, then he has naught…”). Il successo è immediato perché alla bellezza della melodia Sinatra aggiunge una stanchezza e un’insoddisfazione vere, di un uomo che ha vissuto fino in fondo la sua vita e non c’è nulla di cui si debba pentire.
Subito dopo cominciano le cover, in Francia con le versioni di grandi signori e signore della canzone d’oltralpe come Maurice Chevalier, Édith Piaf, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour, Mireille Mathieu e Michel Sardou, e soprattutto in America, dove
tra i primi a inciderla ci sono Nina Simone ed Elvis Presley. Della grande vocalist nera esistono più versioni, ma la più bella e intensa è quella eseguita alla Royal Albert Hall di Londra con accompagnamento di solo piano e percussioni. Una cover decisamente jazzistica, e una capacità di scortare canto e ritmica attraverso una serie di movenze, tanto eleganti e fantastiche quanto sinuose e dinamiche. Ma anche una “durezza” e una determinazione che rasenta la militanza femminista (quel modo di cantare “I did it my way” così secco e duro ma che arriva dritto fino all’osso). Completamente diversa quella di Presley del 1973, che in qualche modo ricorda invece la chiamata all’uscita finale di Sinatra: e tuttavia il suo messaggio sembra riflettere di più il suo “fallimento” personale, il rimpianto di un’immagine logorata dal riciclaggio di vecchie canzoni e dal ritirarsi nell’obesità e nella tossicodipendenza. In lingua spagnola, My Way diventa A mi manera nella travolgente reprise dei Gipsy Kings con una ritmica e una colorazione tutta flamenca. E insieme ci metterei anche la sontuosa cover per tromba del cubano Arturo Sandoval con il suo stile inconfondibile, aggres
«Nell’estate del ’69 Frankie canta per la prima volta My Way al Ceasar’s Palace di Las Vegas»
sivo e stupefacente, soprattutto nelle note alte. Indimenticabile poi (da perderci la testa) la versione di Aretha Franklin. Una cover soul tirata e allungata, straziante e vissuta fino all’ultima nota, fino a quell’“Oh yeah” finale che lancia i professori d’orchestra in una coda fantastica, dove piano e organo battagliano in un geniale botta e risposta. Una delle poche cover in grado di insidiare “The Voice”. Poi, ancora, la voce incredibile e ineffabile di Celine Dion, capace di commuovere e far piangere anche i sassi, soprattutto nella seconda parte dove la strofa sale di tono e la sua voce decolla libera con il solo sostegno di un pianoforte. Infine eccoci in Italia, dove My Way è stata ripresa da Luciano Pavarotti (in stile di aria operistica), ma anche da Patty Pravo, Fred Bongusto e soprattutto Mina, la cui versione pare sia stata apprezzata dallo stesso Sinatra.
Come non concludere con le due versioni punk? Quella di Nina Hagen e quella di Sid Vicious sono due cover assolutamente provocatorie e folli, con la prima strofa cantata da entrambi a ralenti, a presa per i fondelli dei crooner di una volta, mentre subito dopo si scatena l’inferno delle chitarre punk tirate fino allo spasimo insieme alla fucileria delle percussioni (con l’aggiunta, nel caso della Hagen, della lingua tedesca). Ma è la versione di Sid quella che fa storia a sé, anche se tratta da un film non meno dinamitardo come The Great Rock’n’Roll Swindle di Julien Temple. Perché My Way cantata da Vicious in quel contesto parigino, dopo che il tour americano ha definitivamente bruciato ogni speranza dei Pistols di continuare a far musica e di cambiare il mondo in direzione punk, diventa un’altra cover non solo di una canzone, ma anche dell’uscita da un’altra famosa carriera. Proprio come la cover di Sinatra. Anche questo è un modo di fare i conti con il “fallimento” di una vita e con una società che a quella vita non ha regalato niente. E la risposta di Sid è tirar fuori una pistola e cominciare a sparare, imprecando e cantando fuori di testa, mentre la band continua a inseguire disperatamente le note di My Way. Solo che qui alla fine i cadaveri sono veri, e sono due, anzi tre: quello di Sid Vicious e signora, e quello di una punk band (i Sex Pistols) volatilizzata, morta e sepolta. Ma… a volte ritornano.