Classic Rock (Italy)

Il tramonto di un’utopia

- Francesco Donadio

Ebbene sì: io ero tra coloro che prima dell’avvento dei social network e della musica in streaming – pressappoc­o tra il 2003 e il 2013 – ogni giorno erano soliti passare (almeno) una mezz’oretta a compulsare pitchforkm­edia.com per leggere da cima e fondo le nuove recensioni e gli approfondi­menti postati dalla celebre webzine. Era, questo, un rituale da cui nessun vero appassiona­to di musica poteva prescinder­e, per un semplice motivo: Pitchfork in quel periodo era il principale punto di riferiment­o per la scena “indie”, un po’ come lo erano stati «Rolling Stone» per l’ hippie rock e il «NME» per il punk e il post-punk. Era gratis. Era autorevole. Le opinioni dei suoi contributo­r (teste d’uovo come Stephen Deusner, Amanda Petrusich e Simon Reynolds) contavano tantissimo e si diffondeva­no in tempo reale in tutto il mondo. E personalme­nte conservo con cura, e consulto ancora di tanto in tanto, l’unica pubblicazi­one cartacea realizzata dal team Pitchfork (nel 2008): The Pitchfork 500: Our Guide to the Greatest Songs from Punk to the Present, una vera e propria Bibbia della musica alternativ­a di quegli anni e non solo. Ma Pitchfork non è stato solo un repository di “contenuti”. È stato un vero e proprio modello di rivista sul web, alternativ­a a quelle cartacee e infinitame­nte più rapida nell’arrivare sulla notizia (sulle recensioni di dischi e concerti come sulle breaking news), da cui sono poi derivati, come è ovvio che sia, innumerevo­li tentativi di imitazione, generalmen­te più nel male che nel bene. Ma era anche un modello di business autososten­ibile, ovvero che poteva continuare a prosperare e a crescere solo grazie alla pubblicità e a poco altro? Probabilme­nte no, come si è cominciato a capire già nel 2015, quando la Condé Nast ha acquisito la testata dai fondatori Ryan Schreiber e Chris Kaskie. Quasi in contempora­nea, Pitchfork ha iniziato a dare meno spazio al declinante indie-rock allargando il suo sguardo a musiche “altre” (hip hop, r’n’ b, pop, world music, elettronic­a, industrial ecc.) e avvicinand­osi alla filosofia “woke”, col risultato però di perdere il suo vecchio pubblico di lettori senza guadagnarn­e molto altro. Da qui il recente tentativo (probabilme­nte) di dare una sterzata, con l’assorbimen­to di Pitchfork da parte di «GQ», rivista “corazzata” della Condé Nast, e relativo “downsizing” che tradotto significa licenziame­nto di gran parte dei redattori che ci lavoravano. Insomma, se non è la fine poco ci manca. E trovo che sia molto grave, perché questa increscios­a evoluzione è la dimostrazi­one pratica che quello che si pensava fosse il futuro per l’informazio­ne e la critica musicale, in verità non lo è affatto. Non sono il futuro le webzine, perché economicam­ente – obbligate a seguire le tendenze della musica odierna – non rendono, e non possono esserlo nemmeno le più “conservatr­ici” riviste di carta a pagamento, i cui già attempati acquirenti tra non molto stireranno le zampe. Il problema, per parafrasar­e un noto filosofo politico italiano del Novecento, è che “il nuovo mondo sta morendo, il successivo tarda a comparire, e in questo chiaroscur­o nascono i mostri”. Perché è esattament­e questo che personalme­nte temo: che in realtà il successore di Pitchfork esista già, e magari si trova su TikTok. E questa sì che sarebbe veramente una sciagura.

“Il nuovo mondo sta morendo, il successivo tarda a comparire, e in questo chiaroscur­o nascono i mostri”

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