Il tramonto di un’utopia
Ebbene sì: io ero tra coloro che prima dell’avvento dei social network e della musica in streaming – pressappoco tra il 2003 e il 2013 – ogni giorno erano soliti passare (almeno) una mezz’oretta a compulsare pitchforkmedia.com per leggere da cima e fondo le nuove recensioni e gli approfondimenti postati dalla celebre webzine. Era, questo, un rituale da cui nessun vero appassionato di musica poteva prescindere, per un semplice motivo: Pitchfork in quel periodo era il principale punto di riferimento per la scena “indie”, un po’ come lo erano stati «Rolling Stone» per l’ hippie rock e il «NME» per il punk e il post-punk. Era gratis. Era autorevole. Le opinioni dei suoi contributor (teste d’uovo come Stephen Deusner, Amanda Petrusich e Simon Reynolds) contavano tantissimo e si diffondevano in tempo reale in tutto il mondo. E personalmente conservo con cura, e consulto ancora di tanto in tanto, l’unica pubblicazione cartacea realizzata dal team Pitchfork (nel 2008): The Pitchfork 500: Our Guide to the Greatest Songs from Punk to the Present, una vera e propria Bibbia della musica alternativa di quegli anni e non solo. Ma Pitchfork non è stato solo un repository di “contenuti”. È stato un vero e proprio modello di rivista sul web, alternativa a quelle cartacee e infinitamente più rapida nell’arrivare sulla notizia (sulle recensioni di dischi e concerti come sulle breaking news), da cui sono poi derivati, come è ovvio che sia, innumerevoli tentativi di imitazione, generalmente più nel male che nel bene. Ma era anche un modello di business autosostenibile, ovvero che poteva continuare a prosperare e a crescere solo grazie alla pubblicità e a poco altro? Probabilmente no, come si è cominciato a capire già nel 2015, quando la Condé Nast ha acquisito la testata dai fondatori Ryan Schreiber e Chris Kaskie. Quasi in contemporanea, Pitchfork ha iniziato a dare meno spazio al declinante indie-rock allargando il suo sguardo a musiche “altre” (hip hop, r’n’ b, pop, world music, elettronica, industrial ecc.) e avvicinandosi alla filosofia “woke”, col risultato però di perdere il suo vecchio pubblico di lettori senza guadagnarne molto altro. Da qui il recente tentativo (probabilmente) di dare una sterzata, con l’assorbimento di Pitchfork da parte di «GQ», rivista “corazzata” della Condé Nast, e relativo “downsizing” che tradotto significa licenziamento di gran parte dei redattori che ci lavoravano. Insomma, se non è la fine poco ci manca. E trovo che sia molto grave, perché questa incresciosa evoluzione è la dimostrazione pratica che quello che si pensava fosse il futuro per l’informazione e la critica musicale, in verità non lo è affatto. Non sono il futuro le webzine, perché economicamente – obbligate a seguire le tendenze della musica odierna – non rendono, e non possono esserlo nemmeno le più “conservatrici” riviste di carta a pagamento, i cui già attempati acquirenti tra non molto stireranno le zampe. Il problema, per parafrasare un noto filosofo politico italiano del Novecento, è che “il nuovo mondo sta morendo, il successivo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Perché è esattamente questo che personalmente temo: che in realtà il successore di Pitchfork esista già, e magari si trova su TikTok. E questa sì che sarebbe veramente una sciagura.
“Il nuovo mondo sta morendo, il successivo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono i mostri”