Un salto all’Ikea
Quando ero giovane i momenti in cui riuscivo fortunosamente ad accaparrarmi una copia dell’«NME» era una festa: ragazzi, che stroncature! I recensori magari sbagliavano, ma che stile nell’affondare lo stiletto nelle piaghe di questo o quel disco. Dov’è oggi quella cattiveria? Il problema è che manca la materia prima: le colossali ciofeche. Il perché trascende il nostro rock.
Posto che un disco di un genere che ci fa venire l’orticaria sarà comunque ciofeca per noi, l’affermarsi dei software come nuovi strumenti e dei nuovi generi di massa ha eliminato dal processo produttivo l’artigianalità, responsabile di divine ambrosie e potenti fetenzie. Sembrava un dispiegarsi d’infinite possibilità, l’avvento di GarageBand, antenati & affini: invece si è risolto nella serializzazione della musica. Il passaggio da una civiltà industriale a una informatica ha poi fatto sì che altri generi divenissero di massa, costruiti sui suoni del nuovo mondo. Generi in cui il suono è particolarmente standardizzato, ma, per i loro fan, mai brutto: sempre almeno carino. Non dinamico, incapace di cambi di tempo e velocità, ma carino. Il rock’n’roll, che è artigianale, “will never die”, certo, Neil: ma, almeno per ora, sopravvive come nicchia, tanto come il jazz, il barocco, la lirica. Da qui ovviamente la retromania di cui ha parlato Simon Reynolds, ovvia per l’ascoltatore, ma anche per i nuovi musicisti rock: i classici sono classici perché sono un modello. Non basta riascoltarli: bisogna anche riprodurne il suono. E non a caso il concetto di classic rock si sta giustamente allargando dagli anni 60 e 70, agli 80 e ai 90: a seconda del sottogenere, ognuno ha i suoi modelli da imitare. Ma si imita ciò che è perfetto: e a questa perfezione si cerca di avvicinarsi. I produttori e le risorse digitali, già esperite nei generi di moda ora, aiutano i nuovi artisti nella ricerca di perfezione. Tutto questo, generalmente, uccide la creatività: e così abbiamo un sacco di dischi carini, ma pochissimi belli. E per belli intendo quelli che ti ossessionano, che devi tornare ad ascoltare in loop, di cui vuoi sapere tutto, che ti mancano come l’aria se non li ascolti. La musica, ahimè, è diventata pura merce, un’enorme Ikea, in cui nulla è brutto e tutto è carino, funzionale, omologato. È una visita all’Ikea: utile, ma soffocante, tanto da essere diventata oggetto di infinite gag. Allora forse è il caso di dirlo: avendo ucciso il brutto, il carino è il nemico del bello. E forse dovremmo cominciare a trattare i dischi carini per quello che sono: insignificanti, quindi brutti.
“Avendo ucciso il brutto, il carino è il nemico del bello”