L’enfasi della contrapposizione a Karajan ricorda il miracoloso equilibrio tra studio e naturalezza incarnato da Karl Böhm
Nella contrapposizione con Karajan, enfatizzata nella Salisburgo degli anni Settanta, emerge il miracoloso equilibrio tra studio e naturalezza incarnato da Karl Böhm, ultimo maestro della tradizione viennese. nna lezione a lungo fraintesa, da riscoprire
Tra l’intreccio dei ricordi evocati dalla numerose occasioni di ascolto dal vivo di Karl Böhm affiora con particolare suggestione quello che mi riporta con la memoria a Salisburgo, al 28 agosto del 1979, giorno in cui il maestro compiva ottantacinque anni, approdo toccato con quell’invidiabile freschezza che, se l’incedere incerto della persona, incurvata, pareva offuscare, si poteva cogliere dalla leggerezza ineffabile con cui quella sera diresse Arianna a Nasso, simbolico suggello, anche per il particolare amore che Böhm aveva per quell’opera, della lunga amicizia che lo aveva legato a Richard Strauss di cui sarà interprete di riferimento. In quell’occasione, che cadeva nella fase finale dell’edizione del Festival, tutti gli artisti presenti si riunirono attorno all’anziano maestro a brindare e a intonare l’happy birthday; tra essi anche Karajan, con un abbraccio simbolico che segnava la fine di quella, mai dichiarata ma più che evidente rivalità che aveva attraversato, come un intrigante parallelismo, per più di un ventennio, la vita del Festival. Fatalità volle che sempre nel corso del Festival di due anni dopo si ricordasse Böhm, scomparso il 14 agosto del 1981, con un’esecuzione del Requiem di Mozart nella piazza del Duomo
diretta da James Levine, cerimonia sulla quale la stampa locale non mancò di distillare quei veleni che i giornalisti austriaci posseggono come pochi. Intrigante parallelismo, dicevo, segnato dal solco che divideva la visione di Böhm da quella di Karajan, dominus assoluto del Festival, dualismo che per molti significava il contrasto tra il vecchio e il nuovo, in una contrapposizione che trovava un segnale ben tangibile nella stessa presenza contestuale di due orchestre, i Berliner e i Wiener, con alle spalle tradizioni e caratteri ben marcati: i berlinesi un drappello di efficientismo che sotto la bacchetta di Karajan rispondeva alle istanze di quel supremo ideale sonoro perseguito dal direttore salisburghese, dalla sontuosità avvolgente, luminosa, con una sottile, sempre più marcata inclinazione decadentistica, tratti assai diversi da quelli dei Wiener Philharmoniker, testimoni attivi di una tradizione che si rinnova ma che traduce l’eloquenza prensile del discorso mozartiano con una duttilità che trovava una naturale corrispondenza in Böhm, come risulta dal cofanetto che la Dg ha dedicato in questi giorni al grande maestro (vedi box); un rapporto iniziato nel 1933 e durato quasi un cinquantennio, con 450 concerti e 40 tournée, e suggellato nel 1967 dalla nomina a Direttore onorario, onorificenza che nella storia dell’orchestra, fondata nel 1842, era stata conferita solo due volte: nel 1983 sarebbe poi toccata a Karajan. Se la naturalezza era il tratto che si poteva avvertire nel modo con cui il direttore di Graz iniziava a intrecciare il discorso con l’orchestra, con quel leggero ondeggiare in punta di piedi prima dell’attacco come per anticipare il senso di una musica che nasce dal nulla - quell’indimenticabile inizio di Nozze di Figaro, come un brusio degli archi che creava un’ineffabile eccitazione, sottilmente allarmata - dietro di essa vi era una fermezza che nasceva dal pieno dominio. Con l’acutezza che accompagnava sempre i suoi giudizi Lele d’Amico, nel ricordare Karl Böhm, dopo la sua scomparsa, parlava del grande direttore come di “un uomo avvezzo a guardare parecchio in alto ma tenendo i piedi a terra”, un ritratto che metteva pienamente a fuoco i caratteri dell’artista, intrecciando la qualità del mestiere alla elevatezza della visione musicale, in una superiore unità non riconosciuta, invece, da chi tendeva a considerare Böhm come un Kapellmeister, - definizione che sarà impiegata per molti altri interpreti, da buon ultimo Sawallisch, sotto la spinta di un malinteso protagonismo - vale a dire un direttore efficiente e nulla più. Madornale fraintendimento enfatizzato anche dal confronto con Karajan, dai tratti di un sofisticato divismo che si contrapponeva ad una mai ostentata normalità. Chi ha avuto occasione di lavorare con Böhm, quando venne alla Scala per l’inaugurazione della stagione 1974-75 con Fidelio, quindi con l’Ottava Sinfonia di Bruckner, racconta di come il rapporto con l’orchestra scaligera non fosse stato tra i più entusiasmanti, per la precisione che Böhm cercava di ottenere da ogni strumentista; rapporto felice invece quello col coro di Romano Gandolfi al quale il direttore, in un momento di disappunto verso i percussionisti pretendeva addirittura che impugnasse le bacchette dei timpani! Era questo del resto l’impegno professionale di Böhm, professato anche nella sua autobiografia, per ribadire come il direttore abbia il “dovere, anzi la necessità, di essere scolasticamente fastidioso, per poter seguire ogni sfumatura voluta dall’autore; ma all’esecuzione non deve pensare se il cornista scrocca o no, altrimenti il cornista scroccherà di certo”. E proprio tale stacco tra il rigore della concertazione e il senso di naturalezza che emanava dall’esecuzione era la sintesi del personaggio Böhm, il quale sentiva come solo dalla piena rispondenza dello strumento potesse ottenere un discorso che si muoveva con quella giustezza di tempo che consentiva di liberare ogni frase secondo il suo respiro interno così da risultare spontanea, nella stessa gradazione delle dinamiche, mai imbrigliata entro strutture troppo costringenti, che rimanevano pur sempre nervature invisibili, essenzialmente regolatrici, perché fondamento di quella “classicità” viennese che era alla base della sua formazione e di cui rimase uno dei testimoni e dei custodi più autorevoli: nel suo sapersi mettere in secondo piano per lasciar parlar la musica, che è il segreto del suo modo di rapportarsi con Mozart, nell’assoluta circolarità che si intreccia tra il versante teatrale e quello sinfonico, prolungando poi tale punto d’osservazione lungo l’amatissimo paesaggio schubertiano la cui lunghezza d’onda sentiva diramarsi fino alle stupefatte distese bruckhneriane; come in una lontana intervista lo stesso Böhm ebbe occasione di illustrarmi dopo un’impressionante esecuzione, a Salisburgo, dell’Ottava Sinfonia che io, alle prime armi, non avevo mai ascoltato: monumento sonoro immenso, diceva, in cui il melos di Schubert, intriso di vaghi umori popolareschi si scontrava, convivendovi originalmente, con le imponenti muraglie sonore del ripieno organistico. Naturalmente la stessa aria di Vienna attraversa e irrorava di rara freschezza l’universo beethoveniano attivandone la tensione con un’energia mai forzata, tutta dall’interno, nella convinzione che la forma sia un organismo vivente, che respira; che è poi il senso con cui Böhm viveva ogni sua esperienza, quella wagneriana, testimoniata da alcuni esiti di rara incandescenza quali il Tristano di Bayreuth del 1966, e soprattutto quella che abbraccia la lunga vicenda di Strauss, sul filo di un’aderenza che lascia intendere, con la stessa “umiltà” con cui il direttore si poneva davanti ad una partitura mozartiana, i segreti travagli che l’inoltrarsi nella modernità andava generando nel musicista bavarese, “il grande attuale” secondo Mahler. Gli stessi che doveva avvertire Böhm consapevole della frattura che stava consumandosi entro l’ultima “scuola di Vienna”: come si sa Böhm aveva una predilezione per Berg di cui diresse più volte Wozzeck (anche a Napoli, nel 1949, dove richiese ben trentaquattro prove d’orchestra) e Lulu, lungo una linea che lascia intendere come gli stravolgimenti espressionistici passino pur sempre attraverso il filtro di una consolidata tradizione viennese di cui in Berg vedeva l’estremo, drammatico custode. Non così per Schönberg, come lo stesso Böhm avrebbe replicato alla affermazione di modestia di Berg, l’essere “un nulla di fronte a Schönberg”: “Non se ne abbia a male, ma io di Schönberg preferisco la seconda parte del tutto”.