“Falstaff” e “Parsifal” segnano un addio parallelo. Che poi Verdi superò nel sacro mentre a Wagner mancò il tempo
Nonostante la distanza siderale che separa “Falstaff” da “Parsifal”, gli esiti ultimi dei due convergono nella ricerca di un “addio al teatro”. Che l’ultimo Verdi compì nel genere sacro mentre a Wagner - che già a Bayreuth incarnava il “teatro invisibile”
Ho la vanità di credere che questa mia storia “a due” abbia mostrato come queste grandi figure di musicisti-drammaturghi, nonostante la distanza delle loro radici culturali, delle loro visioni del mondo e, ovviamente, delle loro personalità, abbiano seguito percorsi paralleli, se non addirittura intrecciati, incarnando comuni esigenze estetiche e morali che la civiltà europea della loro epoca affidò al teatro in genere, e a quello musicale in ispecie. Quelle che siamo quindi venute rintracciando non furono, quasi mai, coincidenze casuali e inessenziali. Come abbiamo visto, questi contatti ideali ebbero il punto culminante negli anni Settanta: entrambi giunsero allora, a loro modo, alla pienezza della loro espressione artistica: per Wagner, vistosissimamente, con il completamento dell’Anello e la nascita di Bayreuth; per Verdi, con Aida e la Messa
di Requiem, non meno clamorosamente presso i pubblici di tutta Europa. Esattamente negli stessi momenti Wagner si prodigava ad ottenere dai cantanti, dall’orchestra, dal coro e dagli allestimenti scenici “l’opera d’arte totale”; e Verdi girava l’Italia e l’Europa per garantirsi dal podio la più alta qualità possibile nell’allestimento delle sue ultime opere, convinto che solo una perfetta simbiosi tra canto, orchestra, movimento scenico, luci, costumi e scenari avrebbe reso giustizia della sua creatività. Mi propongo, ora, di riflettere su quello che avvenne per entrambi dopo questi due raggiungimenti. Per Wagner furono ancora anni di amarezza: sembrò persino che quel teatro - su cui si erano appuntati gli sforzi intel-
lettuali e finanziari di tutta la Germania - fosse a rischio di fallimento; che cioè sarebbe dovuto rimanere chiuso. Per cinque lunghi anni, infatti, risultò impossibile rappresentarvi la Tetralogia, come era stato nelle intenzioni dell’autore. Soltanto con lo sforzo dei comitati “wagneriani” che cominciavano a spandersi in tutta Europa e in America, l’accorrere di mecenati devoti e le prestazioni gratuite dei musicisti fecero il miracolo che, nel luglio del 1882, il Festspielhaus di Bayreuth potesse riaprire - ristrutturato - con il Parsifal. Furono cinque anni dedicati interamente a questo progetto che era nelle intenzioni di Wagner fin dagli anni Quaranta, quando il tempio del Gral era stato evocato nella narrazione di Lohengrin. Quasi vent’anni dopo, Parsifal sarebbe dovuto riapparire al capezzale di Tristano; e il Parsifal continuò ad apparire nella mente di Wagner come un progetto inevitabile, a cui dedicarsi però quando ne avesse avuta la forza. Il momento giunse quando sulla verde collina di Bayreuth ci fu un “tempio” pronto ad accoglierlo e - fino a che punto ne fosse cosciente non lo sapremo mai - la parabola umana del suo autore era vicina a concludersi. Si rimane sempre stupiti di fronte a questa “perfezione” della morte di Wagner, giunta alla vigilia della dantesca età dell’uomo (“la nostra vita” del primo verso della Divina Comme
dia) e solo sei mesi dopo la rappresentazione dell’ultima opera; l’opera dopo la quale - non era mai successo - nessun nuovo progetto sarebbe stato possibile. Se fosse sopravvissuto, mi piace pensare che, anziché permettere che la sua casa si aprisse - complice Cosima - alla peggiore feccia pre-nazista e nazista, si sarebbe finalmente deciso - come avrebbe voluto già nei primi anni Settanta - ad emigrare negli Stati Uniti, dove trovare una nuova ragione di vita. Verdi gli sopravvisse di quasi vent’anni, in buona salute e lucidissimo; eppure, dopo la Messa di Requiem, in un imprevedibile si- lenzio creativo che alimentò ipotesi e un’autentica leggenda: quella che qualche anno dopo darà vita al fortunato scritto di Franz Werfel - Giuseppe Verdi. Un romanzo - in cui si immagina un Verdi, paralizzato dalla fama e dalla grandezza di Wagner, che ritorna a lavorare a una nuova opera ( Otello) solo dopo che, giunto a pochi metri dal “rivale” nella fredda Venezia dove soggiornava con quella sorte di corte di miracoli con cui era solito viaggiare (moglie, figli, copisti-pianisti, cane, ecc.), aveva avuto quasi per primo la notizia che era deceduto poco prima. Sta ritornando di moda la storia cosiddetta “congetturale”, basata sui “se”, i “non poteva non”, i “con tutta probabilità”. Con essa si riapre la strada a ogni cialtroneria. Eppure, nel caso di Werfel (un austriaco innamorato di Verdi) l’immaginazione veniva a supplire all’assoluta mancanza di fonti che rispondano al quesito: perché quel silenzio? e perché, quindici anni dopo Aida, il ritorno della creatività? La tesi di Werfel è seducente e sottrae quel silenzio a ogni fredda constatazione per affidarlo a un pathos sofferto. Certo, è molto improbabile che sia quella l’unica spiegazione: ci aggiungerei l’irritazione verso tutti coloro che predicavano ‘l’avvenire’ e consideravano Verdi un trapassato; la documentata allergia per la nuova dignità che si erano conquistati i critici musicali o i direttori d’orchestra; forse persino lo sconquasso che può aver determinato in lui – per qualche anno – un nuovo legame sentimentale. Sia come sia, fu questo silenzio a determinare la prima grande dissociazione temporale tra le nostre due storie finora parallele. Eppure, con un ‘ritardo’ reso possibile dall’essergli sopravvissuto, anche Verdi, nella sua ultima stagione, compì una vera e propria resa dei conti conclusiva con la propria storia creativa. Come sappiamo, i conti in sospeso erano due: quello con Shakespeare, da cui per tanti anni aveva inutilmente vagheggiato di trarre un Re Lear; quello con il genere comico, rimasto angosciosamente fissato nella memoria di Un giorno di regno, composto nel più tetro dei lutti famigliari. Per quanto riguarda Shakespeare, poteva ora disporre di un letterato illustre (o, comunque, ritenuto tale) che gli forgiasse – con Otello – una struttura drammaturgica concisa, efficace, libera dalle verbosità insidiose del teatro di prosa; una vicenda dove potessero giganteggiare il male e il
dolore, proprio come in Re Lear. E a questo egli poteva ora finalizzare la libertà dalle convenzioni formali che aveva acquisito con Aida; la potente saldatura della vocalità con le parole a cui aveva affidato le sue maggiori riuscite drammaturgiche, dal Rigoletto in poi; e l’efficacia espressiva infinita di un’orchestra come quella che giganteggiava nel recente Requiem. C’erano, nel 1887, le condizioni affinché l’ideale ‘tragico’ shakespeariano si realizzasse sulla scena nel migliore dei modi (anche senza doversi creare un nuovo teatro come quello di Bayreuth): Ricordi, la Scala, la trepida ammirazione dei direttori e dell’orchestra, la disponibilità dei più grandi cantanti del momento, nonché i mezzi scenici più aggiornati resi possibili dall’avvento della luce elettrica; tutto questo poteva ben dirsi il coronamento di una carriera; e la realizzazione di un ideale, senza nessuna concessione, neppure all’orientalismo che era stato ancora obbligato ad accettare, in Aida, dal Khedivé d’Egitto. Per quanto riguarda il genere comico, anch’esso mediato attraverso Shakespeare e Boito, il Falstaff fu molto di più che un’ulteriore opera destinata al pubblico: tutte le testimonianza di cui in abbondanza disponiamo ci dicono che il “pancione” segnò quegli anni – prossimi, ormai, agli ottanta – con una costante allegria, con una fin insospettata propensione al riso e allo scherzo. Fu, quell’opera, quasi un fatto privato, non solo perché la sua genesi rimase segreta per anni (ulteriore motivo per un gioco divertente), ma anche perché il genere stesso diede occasione a Verdi per una minore preoccupazione rispetto agli apparati, i mezzi scenici, la difficoltà esecutiva di cantanti e orchestra. Se quindi si può affermare che la parabola creativa di Wagner e di Verdi si concluse per entrambi con la piena e pacificata attuazione di progetti a lungo accarezzati, non c’è chi non veda, accostando per un attimo il Parsifal al Falstaff la distanza siderale tra i due esiti artistici. Ma c’è un’altra considerazione sugli esiti ‘ultimi’ dei nostri due autori: si tratta di un addio al teatro, che Wagner, contrariamente a Verdi, non ebbe il tempo di realizzare. Sappiamo come Wagner, durante le prove della Tetralogia, invocasse – lui che aveva inventato l’”or- chestra invisibile” – il “teatro invisibile”, reagendo con ciò alle ridicole posture dei cantanti e forse anche al ridicolo armamentario di corazze, lance, spade ed elmi, magari con corna. In quel contesto le frasi riferite da Cosima sembrano poco più che una battuta. Eppure rimandano a una tensione che Wagner nutrì costantemente verso la musica ‘pura’ (gli ultimi quartetti di Beethoven; i brani sinfonici delle sue opere eseguiti in concerto; ecc.), e che si concretizzò nel progetto di voler scrivere, dopo il Parsifal, dei piccoli “quadri sinfonici”, senza voce, quindi. A noi balza innanzi, con tutto il suo fascino, un possibile modello: l’Idillio di Sigfrido. Aggiungerei quell’Incantesimo del Venerdì santo che è il nucleo generatore del Parsifal, ed è, se eseguito senza le voci, una gemma totalmente avulsa dallo stesso concetto di “teatralità”. Qui sì che la morte di Wagner mancò di “perfezione”, come prima mi azzardavo a dire, se ci ha privato di altre simili meraviglie! Verdi, invece, ebbe il tempo di uscire dal “teatro”: non gli era riuscito del tutto quando aveva composto - privatamente e “per esperimento” - il suo Quartetto d’archi. Non era avvenuto certamente neppure con la Messa di Requiem, dove palpita un teatro immaginato, certamente non meno efficace drammaturgicamente di un teatro rappresentato. Ma nel genere sacro, a cui si dedicò nell’ultima fase della sua vita, avvenne il miracolo: la decantazione dell’espressione e la contenutezza del gesto sono raggiunte in un clima di sublimazione, apertamente antiteatrale. Verdi, insomma, realizzò - a modo suo, s’intende - ciò che Wagner aveva soltanto immaginato? Forse solo nella già citata moda della storia “congetturale”, questa non è del tutto una sciocchezza …