Rubinstein alle prese con Chopin: una visione sensibile e “sana” che prende forma nei due Concerti per pianoforte
ea carriera di kubinstein è segnata dal confronto col compositore polacco. nna visione sensibile e “sana” che prende forma soprattutto nei due Concerti. Estranei alle riforme romantiche di Schumann e eiszt
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Nato a Lodz il 28 gennaio 1886, nella patria di Chopin, Arthur Rubinstein trascorrerà molti anni della sua vita a Parigi, la città che più amava e nella quale si trovava assolutamente a proprio agio, soprattutto dopo il trasferimento nella bellissima casa di Avenue Foch. Varsavia e Parigi, un binomio che ovviamente fa subito pensare a Chopin: e tra Rubinstein e il grande musicista vi fu effettivamente un legame tutto particolare che venne sottolineato più volte dal pubblico e dalla critica. Uno Chopin classico, quello di Rubinstein, che ebbe il pregio di cancellare la parte peggiore di un approccio troppo sentimentale proprio di certo pianismo ottocentesco senza scadere nell’intellettualismo o nella mancanza di partecipazione verso una musica raffinata sì, ma pur sempre ricolma di una espressività intensa. E il lavoro compiuto da Rubinstein nei confronti della musica chopiniana approda a dei risultati che rappresentano ancora oggi un punto di riferimento ineludibile per qualunque tipo di nuova esplorazione o rilettura dei famosi classici. È uno Chopin “virile” quello di Rubinstein, o meglio uno Chopin del quale si nega ogni componente malata, sia in senso organico che psicologico: nelle sue letture si possono ritrovare motivi di commozione, l’acuta nostalgia, mai però la debolezza o la nevrosi che altre categorie di interpreti hanno giustamente sottolineato partendo da correnti di pensiero completamente
antitetiche. Se nelle tre incisioni complete delle mazurke effettuate da Rubinstein si colgono gli aspetti più intimi di un mondo di affetti che nemmeno il grande pianista può sottovalutare, i Concerti per pianoforte e orchestra sono affrontati da Rubinstein anche con grande vigore e con una compiaciuta dose di bravura, soprattutto nelle esecuzioni che ci sono rimaste anteriori agli anni 50.
Quando agli inizi degli anni 70 iniziarono a circolare preziosi lp che riportavano alla luce esecuzioni storiche, riprese dal vivo, di importanti direttori e solisti, il pubblico abituato ad ascoltare le classiche incisioni in studio si rese conto di quanto più emozionanti e veritieri fossero quei documenti, magari con un suono appannato e molto rumore di fondo ma dei contenuti che non mancavano di suscitare grandi emozioni. Tra quei documenti vi era una registrazione “live” del primo Concerto di Chopin suonato da Arthur Rubinstein nel 1947 con la New York Philharmonic diretta da Bruno Walter, che fece scalpore per almeno due motivi: gli applausi scroscianti al termine del primo movimento, usanza americana (ma non solo) che era stata poi censurata dalle consuetudini perbeniste delle sale da concerto europee, e la velocità molto elevata alla quale il pianista ricorreva in un testo da lui affrontato in maniera molto più temperata soprattutto nelle successive incisioni in studio effettuate per la Rca. Il Rubinstein del 1947 conosceva benissimo e da molti anni i Concerti di Chopin: il grande pianista aveva allora 61 anni e aveva già inciso in studio entrambe le opere con la London Symphony Orchestra nel 1937 (il primo concerto) e nel 1931 (il secondo) sotto la bacchetta di John Barbirolli. Interpretazioni subito famose anche se il piglio militaresco del direttore britannico era spesso in aperto contrasto con l’approccio poetico di Rubinstein e i tagli apportati alla parte orchestrale, soprattutto nell’op. 21, non rendevano certo quei dischi inappuntabili dal punto di vista filologico. L’edizione principe dei due concerti da parte di Rubinstein uscì solamente tra il 1958 e il 1961: il primo con la Symphony of the air diretta da Stanislaw Skrowaczewski e il secondo con la New Symphony Orchestra of London e Alfred Wallenstein. Si tratta di esecuzioni che raggiungono uno standard qualitativo elevato, un buon compromesso tra il dettaglio della strumentazione orchestrale e la parte solistica (non dimentichiamo che si trattava dei primi dischi stereofonici), una scelta di tempi non eccessivamente veloci, un suono sempre pieno e presente ma anche dolcemente poetico e già immerso in una vision retrospettiva più che giustificabile nel caso di un artista che di lì a poco avrebbe compiuto gli ottant’anni. Gli anni 60 videro altre performance di Rubinstein riversate poi in disco (l’op.11 con Caracciolo e i complessi della Rai di Napoli nel 1964, l’op. 21 con Rowicki e poi con Giulini, entrambi a Londra nel 1960 a pochi mesi di distanza) e infine vi furono le ultime commoventi testimonianze dell’estrema vecchiaia, con l’op. 11 diretta da Paul Kletzki a Ginevra nel ’72 e l’op. 22, in video, con André Previn (1975) e un Rubinstein ottantanovenne e quasi cieco a fianco di quella London Symphony che lo aveva accompagnato 45 anni prima nello stesso repertorio.
Il repertorio I due concerti op. 11 e op.21 rappresentarono il materiale principale per le esibizioni pubbliche di Chopin a Varsavia, Vienna e nei primi anni del soggiorno a Parigi. Come nel caso di tutti gli altri lavori per pianoforte e orchestra, anche nei due Concerti i commentatori hanno sempre criticato la debolezza congenita dell’orchestrazione e i direttori non si sono mai fatti eccessivi scrupoli nell’arrangiare qua e là la strumentazione o nell’operare tagli (questi ultimi soprattutto nella lunga introduzione orchestrale dell’opera 11). Il giudizio sullo Chopin “sinfonico” è stato ridimensionato nel tempo e oggi non si parla tanto di incapacità nella strumentazione, semmai di scarso interesse per un vero dialogo tra solista e orchestra. Non si deve però dimenticare la collocazione storica dei due lavori, appartenenti a un periodo nel quale trionfava un genere rivolto quasi solamente a mostrare l’abilità del solista e quindi precedente alla svolta che avverrà a partire dal decennio successivo quando soprattutto Schumann ripenserà completamente l’architettura interna del Concerto raggiungendo un risultato di fusione tra solista e orchestra del tutto nuovo e ricco di sviluppi ulteriori. Se i due concerti di Chopin appartengono dunque ancora al genere brillante, nondimeno la geniale scrittura pianistica e la qualità delle bellissime idee melodiche e armoniche che si ritrovano di continuo nelle due partiture ne innalzano il valore ben al di sopra degli esempi dei musicisti contemporanei e giustificano ampiamente le ragioni di un successo che fin dall’inizio ha decretato il loro ingresso senza riserve nel repertorio. Il primo Concerto, dedicato a Kalkbrenner, conobbe una fama assai superiore al secondo, e solamente nel ‘900 gli equilibri nei confronti delle due partiture si sono pressoché ristabiliti. Certo è che i ritmi marziali, vigorosi, le stesse melodie più “virili” che si incontrano nell’opera 11 hanno contribuito a concentrare su questo le preferenze del pubblico. L’Allegro maestoso che apre il primo Concerto suscita meraviglia per la grandiosità dell’introduzione orchestrale (138 battute, che raramente vengono rispettate in sede di esecuzione), introduzione che prepara in modo efficacissimo l’entrata eroica del solista e la successiva esposizione della lirica melodia rimasta tra le cose più celebri uscite dalla penna di Chopin. La fantastica introduzione orchestrale della successiva Romanza lascia il posto a una di quelle tipiche melodie che Chopin ha senz’altro mutuato dal belcanto italiano e che egli ha saputo trasformare e arricchire con un’arte della fioritura davvero straordinaria. Trascinante nella vivacità del proprio ritmo di danza popolare,il Rondò finale è ancora da ammirare per la qualità delle idee melodiche e per l’irresistibile dinamica della parte pianistica. Nel Concerto op. 21 noteremo invece il ricorso a una più soffusa vena patetica, sia nel Larghetto centrale che nel finale teneramente danzante.