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preciso annunzio di iniziative celebrative. È pur vero che Mascagni, scomparendo nel 1945, era un sopravvissuto a se stesso, che da anni aveva visto le sue opere uscire dai cartelloni, sebbene ritenesse che “qualcuna di esse fosse altrettanto valida se non forse di più” del capolavoro degli esordi; e nella sua attività di direttore d’orchestra si era infatti sforzato di sottrarle all’oblio dei teatri eseguendone in concerto molti suggestivi brani sinfonici (da L’amico Fritz, Guglielmo Ratcliff, Le Maschere, Silvano) o l’Inno del sole dall’Iris. Ma è altrettanto vero che da decenni l’opera di Mascagni è divenuta oggetto di ricerche accurate e diffuse, il che ha prodotto una sorta di schizofrenia tra una letteratura critica ricca di convegni, monografie, epistolari e saggi, e un interesse esecutivo che si conferma ancora distratto ed occasionale. Così, la questione Mascagni ci sembra oggi tutt’altro che chiusa, e indispensabile una rilettura fuori da ogni campanilismo localistico di questo personaggio “pubblico”, di fama internazionale, idolo di masse, presente ai suoi tempi a Mosca, a Buenos Aires, a Vienna, a San Francisco…, apprezzato da Massenet, Mahler e poi da Karajan (che lo definì “uno dei migliori direttori che avesse visto e sentito”). Soprattutto perché Mascagni, nell’arco di tempo che segue la rivoluzione culturale di Cavalleria rusticana (1890), appare oggi tutt’altro che “prigioniero” del capolavoro giovanile, ma piuttosto un musicista che prende immediatamente le distanze dai suoi modi musicali e scenici, impegnato in un’intensa e ostinata lotta di rinnovamento con se stesso; e rivolgendosi a vicende drammatiche assai dissimili fra loro, dà vita a un’impressionante serie di “occasioni”, di esperimenti più o meno realizzati, a testimoniare un’inquietudine creativa, uno sforzo di fare del nuovo, di essere originale e moderno. Opere che vengono così a trovarsi in lucida consonanza con i percorsi della cultura letteraria della Belle Epoque, di cui Mascagni si fa interprete sulla scena: dal verismo verghiano al florealeparnassiano di Zanetto, ambientata in una Firenze rinascimentale, al simbolismo esotico di Iris che precede il Giappone di Butterfly, fino all’approdo decadentistico di Isabeau e della dannunziana Parisina, che vede la luce nel 1913: il che non può non destare meraviglia e interesse, in questo autore non letteratissimo che negli anni Venti vivrà una sorta di ripiegamento su se stesso ed apparirà - anche per sua colpa - ostinato fautore del passato, spregiatore di ogni novità (fosse jazz, Scuola di Vienna, Generazione dell’Ottanta), polemista facile, personalità sanguigna e contraddittoria. A chi volesse “toccare con mano” i segni dell’inclinazione costituzionale di Mascagni alla sperimentazione drammaturgica ( Cavalleria rusticana è, vorremmo dire, un capolavoro a sé), sarebbe da consigliare la lettura di un’opera come Guglielmo Ratcliff, data alla Scala nel 1895, ma iniziata a comporre otto anni prima dell’esordio veristico: una pièce giovanile che costituisce il documento più affascinante e convincente della nostra scapigliatura germanizzante e, con il suo sovraccarico di assassini, spettri, amori tormentati, paesaggi infernali, un inedito trapianto dell’horror sulla scena lirica. Non solo: l’impiego della traduzione italiana (di Andrea Maffei) del testo di Heine induce Mascagni - e siamo negli anni Ottanta, durante il silenzio verdiano - alla rinuncia totale al pezzo chiuso, e all’adozione di un recitativo e di un declamato continuo e irregolare, seppure già innervato di quelle affascinanti arcate cantabili che saranno la sua futura gloria. Questo primissimo campione italiano di Literaturoper, che scavalca il rifacimento librettistico per attingere al testo letterario originale, risulta una partitura oscura, limacciosa, lontanissima dalla futura solarità di Cavalleria, con un impiego sagace di motivi conduttori e con un’originalissima “tinta” da ballata epico-popolare in cui non manca una certa ricerca di colore locale: mentre nell’opera ispirata a Verga, Mascagni rende il popolare del canto di Lola addirittura con un improprio stornello toscano (“Fior di giaggiolo...”), nel Ratcliff egli ricorre a citazioni di autentiche melodie per cornamusa, ad evocare il paesaggio scozzese. Ancor più definito che in Cavalleria, si delinea già con
Ratcliff il tenore mascagnano, originale espressione di un tipo umano che il Nostro ripropone in tutte le sue opere, anche in quelle meno felici: focoso, inquieto, pervaso da una tipica malinconia sensuale, quasi da un Eros perennemente insoddisfatto e destinato a non realizzarsi appieno, l’eroe amoroso rappresenta il momento di maggiore verità espressiva di Mascagni, quasi la proiezione di una personale irruenza mai placata, da “vinto” di verghiana memoria. Se con Guglielmo Ratcliff ci troviamo di fronte a un capolavoro giovanile che attua soluzioni forse mai più praticate con tanta coerenza ed intensità nelle opere successive, nonostante l’incantevole, giovanile lirismo dell’Amico Fritz (1891) e il simbolismo decorativo ed estenuato di Iris (1898), un altro vertice dell’estro creativo di Mascagni, si dovrà forse attendere l’incontro con d’Annunzio per Parisina (1913) per ritrovare la stessa tensione drammatica e una pari omogeneità linguistica del primo lavoro. E a questa raffinatissima realizzazione (cui, peraltro non ha mai corrisposto una meritata accoglienza di pubblico) dedichiamo una scheda per evidenziarne i tratti di straordinaria novità, di estenuato gusto decorativo in una dimensione decisamente decadentistica, e sottolineare la capacità che Mascagni qui rivela di tratteggiare una figura femminile che sembra aver tutto recepito dell’abbandono sensuale del testo dannunziano. Ma l’ammirazione per certe opere che sono al limite del capolavoro e che giustificherebbero appieno un loro inserimento stabile nei cartelloni, non dovrebbe far tacere l’interesse per la moderna capacità di rinnovamento che Mascagni mostra anche fuori dal palcoscenico, in una produzione ancor meno conosciuta di quella teatrale: e non pensiamo alle diecine di romanze da salotto di gusto tardo- romantico fra cui se ne individuano alcune davvero splendide, o alle giovanili cantate ispirate a Leopardi o all’Inno alla gioia di Schiller, o al sacro tradizionale della Messa di Gloria. Ci riferiamo all’assaggio del poema sinfonico che l’operista Mascagni realizzò ispirandosi alla Santa Teresa del Bernini, al gusto debussiano esibito nel brano pianistico Sunt lacrymae rerum e nella lirica La luna, e al diverso modo di dialogare con il teatro che praticò componendo un’operetta ( Sì), le musiche di scena per un fortunato dramma di Hall Caine The Eternal City, per il Dante di Maso Salvini e per Il soldato d’Italia di Antona-Traversi. Ma soprattutto emblematica della sua modernità è la collaborazione che stabilì con il nuovissimo mezzo cinematografico: mentre un Pizzetti o un Malipiero si limitarono a comporre delle pagine di commento “autonome” per la Cabiria di D’Annunzio-Pastrone o per Acciaio di Pirandello-Ruttmann, Mascagni, avvicinandosi alla Rapsodia satanica di Nino Oxilia, con la fascinosa Lyda Borelli, predispose una vera e propria colonna sonora, ritagliando i tempi della musica composta sulle precise durate delle sequenze cinematografiche: un perfetto esempio di parallelismo musicale rispetto allo scorrere delle immagini filmiche. E fu tale il fascino esercitato su Mascagni dalla decima arte che, con l’affermazione del sonoro, collabora nel 1933 a una coproduzione italo-tedesca, La canzone del sole, con una bellissima romanza affidata a Giacomo Lauri-Volpi, protagonista del film, e figura personalmente come direttore di alcune scene del suo tardivo Nerone nel film-opera La regina della Scala del 1937: una brillante conclusione al passo con i tempi per un musicista formatosi con i Kyrie, i Christe e le romanze da salotto in una provincia toscana, nei primi anni del regno d’Italia.