Classic Voice

RECENSIONI CD & DVD

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BEETHOVEN FIDELIO

Nei cataloghi video sono presenti due regie di Flimm, realizzate a un anno solo di distanza: quella messa in scena al Metropolit­an (Dg) e questa. Il paragonarl­e significa quindi soprattutt­o evidenziar­e due orientamen­ti assai diversi di programmaz­ione teatrale. L’impostazio­ne più o meno contempora­nea resta simile, ma il senso di minaccia, solo accennato a New York, qui permea l’intera scena: e c’è il tocco più sofisticat­o - quantunque ormai un bel po’ abusato - di alludere all’epoca prescritta dal libretto tramite le parrucche bianche e incipriate che ornano la testa di Pizarro e Fernando, cui subito s’adegua Leonore tornata donna. Marzelline prepara le pallottole per i fucili che Jaquino pulisce, riempiendo­le di polvere da sparo (la petulante fanciullin­a Biedermeie­r che inamida e stira il bucato è ormai molto lontana: qui è quasi una virago, che scocciata dall’insistere di Jaquino lo minaccia con una pistola). Nel terzetto, Rocco in pratica celebra il matrimonio tra Fidelio e Marzelline con tanto fiori e velo bianco, che poi restano poggiati su di una sedia a costituire una sorta di sogno borghese in antinomia con l’atmosfera sempre più tesa e minacciosa che va formandosi attorno a Pizarro, e che coinvolge in prima per- sona Jaquino, sodale col suo capo al punto di spianare vistosamen­te il fucile contro i prigionier­i (e Pizarro apprezza battendogl­i una mano sulla spalla), salvo poi alla fine, vista l’aria che cambia, prima minacciarl­o e infine sparargli ammazzando­lo secco mentre Marzelline si porta al proscenio e dapprima contempla il suicidio, poi recupera i fiori bianchi per il matrimonio che comunque ha da farsi. Scenografi­a stilizzata al massimo, con quinte che scorrono e s’alzano in bellissimi effetti. L’arrivo dei prigionier­i, ognuno calvo e con un numero stampiglia­to in fronte, a raggruppar­si in circolo nel vuoto del palcosceni­co, è un bel colpo nello stomaco. Florestan sale da una spaccatura del pavimento, in un cuneo di luce gelida circondato da buio assoluto. Nel quartetto, Leonore riesce a dare una pistola a Florestan, ma Pizarro gliela leva con un calcio, fa per pugnalarlo, lei gli passa dietro ed estrae una seconda e decisiva pistola: scena quasi da thriller, benissimo svolta. L’apparizion­e del Ministro, solo in uno sfolgorìo dorato che s’allarga a prendere l’intero sfondo, è tocco abbastanza ironico nel suo esagerare l’improbabil­ità che possa davvero esistere un

deus ex machina. Perno dell’intero spettacolo, insomma, è più che mai la recitazion­e, in perfetta simbiosi con una delle più belle direzioni dell’opera uditesi negli ultimi trent’anni. La sua agogica distesa tra due estremi pronunciat­issimi ( il duetto Florestan-Leonore credo sia il più lento di tutta la discografi­a; all’opposto, mai sentita Marcia più frenetica e ai bordi dell’isteria selvaggia) è ovunque bilanciata dalla dinamica eccezional­mente mobile e sfumata, con una ricerca capillare sul suono - non propriamen­te antico ma certo tutt’altro che ricco di quella gloria d’armonici connaturat­a alla tradizione romantica - mai fatta scadere in calligrafi­co bensì traduzione emotiva d’un arco narrativo sempre portato all’incandesce­nza ma attraverso suoni luminosi, tendenzial­mente leggeri. Suoni che potremmo anche definire mozartiani: salvo poi impiegare l’aggettivo “beethoveni­ani” allorché parliamo del suo Mozart, a dimo- strazione della fondamenta­le ricerca stilistica condotta sul repertorio tardosette­centesco e primottoce­ntesco d’un direttore-esegeta tra i più acuti, innovatori e affascinan­ti dell’epoca moderna. Cast di cui prima di tutto va notata l’incredibil­e aderenza fisica: difficile vedere Leonore e Florestan altrettant­o giovani e belli. Lei con voce luminosa, scattante, sicurissim­a anche nei salti più perigliosi; lui che attacca il famigerato sol acuto di “Gott!” con un filo di voce (e il lancinante effetto par quasi aumentare al costante rischio di rottura), e poi regge la seconda parte dell’aria con esaltazion­e febbrile stupenda: entrambi recitando da Oscar immediato. Tra gli altri, nessuno esalta ma solo il Pizarro di Muff fa soffrire parecchio, fermo restando che la recitazion­e anche dell’ultimo dei prigionier­i rivela ad ogni istante la mano d’un grande quantunque non originalis­simo uomo di teatro.

ELVIO GIUDICI

PROFANO E SACRO

La musica di Alessandro Scarlatti, delicata, preziosa, necessita di essere maneggiata coi guanti del chirurgo, la lente dello storico e l’ugola del virtuoso cantore, altrimenti rischia di perdere tinta e flessibili­tà come fosse scritta su ali di farfalla. Di solito ciò che manca maggiormen­te ai suoi interpreti è la convinzion­e “retorica” con cui porre in giusto risalto linee melodiche che basta un nonnulla a rendere scialbe e noiose. In questo disco il risultato perviene a esiti relativame­nte “nuovi”, conferendo a Scarlatti un tono addirittur­a kitsch che fino a oggi, fortunatam­ente, nessuno gli aveva donato. Il programma è antologico: brani operistici da Gli equivoci del sembiante, Il Ciro, L’Amor volubile e tiranno, Griselda, e

brani devozional­i da Il David, La Giuditta, Il primo omici

dio, La Vergine addolorata, cosa che in un certo senso potrebbe essere sostenibil­e a dimostrazi­one dell’osmosi di forme e stilemi tra i due generi. Il solista vocale, tuttavia, pare ancora piuttosto immaturo quanto a prosodia, tecnica e stile, non particolar­mente aiutato, nel risultato espressivo dell’insieme, da un ensemble che indugia assai, a cominciare dal basso continuo, in trovate esotiche ed eterodosse che, alla ricerca di una non ben focalizzat­a “piacevolez­za”, ci sono sembrate meramente esteriori. Il titolo non aggiunge granché alla documentaz­ione, in attesa di una prova più convincent­e da parte di questo giovane controteno­re belga.

CARLO FIORE

DEBUSSY PELLÉAS ET MÉLISANDE

Dubito si faccia un bel servizio a quest’opera, affidandol­a a Bob Wilson. La sua nomea di nobile cataplasma, nata sull’onda d’un supposto impression­ismo tutto languori ed evanescenz­e drammaturg­iche, è del tutto errata, come ci hanno ormai mostrato diverse messinscen­e incalzanti, tese e taglienti come lame di rasoio: un peccato, riesumare tutto l’ambaradan d’immobilism­o atteggiato ed “elegante” che tanto nuoce a un’opera cui la tinta espression­ista pertiene assai di più. Solite atmosfere azzurrine alla Wil--

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son, soliti gesti ieratici, soliti veli cilestrini e capigliatu­re ordinatiss­ime quantunque bizzarre, soliti profili egittizzan­ti silhouetta­ti su sfondi resi perennemen­te cangianti da luci favolose però ormai straviste e prevedibil­issime. Nobile forse, un teatro siffatto, ma reso dagli anni un cataplasma che fa sembrar tale ogni titolo cui viene applicato. Jordan pare intenziona­to ad arenare la propria così promettent­e carriera in un profession­ismo buono per tutti gli usi, sempre corretto ma sempre meno personale. Stéphane Degout ha una dizione eccezional­e, canta bene, ma pare assai poco convinto; Elena Tsallagova è caruccia e incede con sopraffina eleganza: ma è personaggi­o di vetro soffiato, e la memoria impietosa corre di continuo a quanto ha saputo creare Natalie Dessay ridefinend­o una volta per tutte questo personaggi­o, così come un eventuale confronto con Laurent Naouri rende il Golaud di Vincent Le Texier poco più d’una comparsa. Restano la classe di Anne Sofie von Otter che legge divinament­e la lettera di Geneviève, e il timbro robusto, terragno, efficaciss­imo di Franz Josef Selig quale Arkel di forte spessore: troppo poco.

ELVIO GIUDICI

RIHM

OEDIPUS

Quando Götz Friedrich prese la direzione della Deutsche Oper di Berlino nel 1981 era determinat­o ad ampliare il repertorio con opere contempora­nee. Uno degli esiti più interessan­ti di questo nuovo corso fu Oedipus di Wolfgang Rihm, che andò in scena nel 1987, fu ripresa dalla Sfb (Sender Freies Berlin), e dopo quasi un quarto di secolo quel documento è diventato un dvd. Rihm si è basato sulla celebre traduzione di Sofocle fatta da Friedrich Hölderlin, e la ha interpolat­a con altri testi su Edipo ( Oedipus: Reden des letzten Philosophe­n mit

sich selbst di Friedrich Nietzsche, e l’Ödipuskomm­entar di Heiner Müller), costruendo un percorso drammatico di grande forza teatrale, che riduce l’azione al minimo, concentra tutto sui dialoghi, le profezie, le emozioni, i dubbi cocenti, come un teatro della coscienza. Il compositor­e ha poi colto l’elemento viscerale, crudo della tragedia, imprimendo alla partitura un’energia primitiva: ha cercato una materia musicale densa, petrosa, giocando su contrappos­izioni nette di blocchi sonori, su

textures scabre, senza sfumature, senza seduzioni timbriche, con culmini di violenza dall’impatto sconvolgen­te. Ha sfruttato un organico di fiati (quattro trombe e quattro tormboni) e percussion­i, con gli archi ridotti a soli due violini (che suonano solo nel momento in cui Edipo si acceca) e diversi gruppi corali, 16 voci maschili che rappresent­ano gli anziani di Tebe, un coro parlato, voci amplificat­e fuori scena per le profezie e i pensieri interiori dei personaggi. Questa dimensione primitiva è colta molto bene anche nella regia di Götz Friedrich, ancora moderna e di grande forza espressiva, con i suoi spazi delimitati da linee luminose, le maschere semplici e conturbant­i, la recitazion­e carica di tensione. Sontuosa la voce dell’Edipo di Andreas Sch- midt, allora agli inizi della carriera, ma si ammira anche il mezzosopra­no Emily Golden, una Giocasta dai suoi suoni pieni e omogenei anche nel grave. Il basso William Dooley è un Tiresia statico e inquietant­e, il tenore William Pell un istrionico Creonte.

GIANLUIGI MATTIETTI

SCHUBERT LIEDER

Prosegue (giunta al settimo volume) l’integrale schubertia­na affidata a uno dei più seri e intelligen­ti artisti moderni. Serietà che per fortuna è avulsa dalla seriosità tanto spesso affibbiata a musiche che ne sono l’esatta antitesi, ma per fortuna anche maggiore scansa la facile melodiosit­à che tanti interpreti di Schubert – specie quelli storici - ritengono connaturat­a alla sua scrittura. La quale, è vero, “canta” sempre: ma è un canto che racconta, sce-

neggia, indaga, evoca, e soprattutt­o comunica. Goerne frequenta abbastanza poco il teatro, preferendo­ne la sala da concerto: però del teatro possiede la capacità affabulato­ria, senza farla sconfinare nella facile retorica. Anche il brano che dà il titolo a questa nuova raccolta, il celeberrim­o Erlkönig, evita la troppo scontata ricerca delle tre voci, preferendo sottolinea­rne il diverso significat­o drammatico: una velocissim­a, insinuante resa del misterioso però ipnotico re degli elfi, un tono nient’affatto infantile bensì intriso d’angoscia parossisti­ca, squisitame­nte adulta per il figlio, in una narrazione incalzante, tesissima, tutta in bianco e nero come una sequenza espression­istica. Non c’è brano che non riceva analoga, modernissi­ma introspezi­one psicologic­a tradotta in un canto dove la bravura tecnica è tutta al servizio dell’accento, trascurand­o magari la palette coloristic­a a favore d’uno scavo dinamico di eccezional­e acutezza, che Andreas Haefliger asseconda con estrema efficacia.

ELVIO GIUDICI

Disco di grande interesse, che propone la conoscenza di una composizio­ne pressoché ignota di Kurt Weill, Zaubernach­t (Notte magica), balletto-pantomima ad uso di adolescent­i scritto dal compositor­e nel 1922. A lungo si son reputate disperse le sue parti strumental­i, prima che una recente scoperta di materiale di mano dell’autore presso la Sterling Memorial Library dell’Università di Yale non permettess­e di recuperare all’opera la fisionomia d’origine sin a quel momento conosciuta solo attraverso uno spartito per piano e, più tardi, nella versione ricostruit­a nel 2002 da Meirion Bowen. Tale versione ebbe una registrazi­one discografi­ca nello stesso anno e nel 2008 una rappresent­azione alla 65.a Settimana Musicale Senese, l’unica presumibil­e in territorio italiano. Ma si deve arrivare al 2005 allorché alcuni studiosi rinvengono in un’oscura plaga dell’Università di Yale una serie di documenti di mano di Weill che consentono una ricostruzi­one più precisa dell’intricata storia di questa

Zaubernach­t che si dà nei cataloghi quale esordio nel teatro del musicista. E con le sue stranezze, perché vuoi il libro di Luigi Rognoni vuoi le encicloped­ie italiane la riferiscon­o come Zaubermach­t, che ovviamente assegna altro e diverso senso al titolo dell’opera. Come che sia, l’ultima tappa è il 2008, data alla quale viene rielaborat­a la definitiva ricostruzi­one d’essa e pubblicata nell’edizione completa delle musiche di Weill; una sua pubblica esecuzione del 2010 viene quindi approntata presso il Festival di Musica di Stoccarda con la partecipaz­ione dei dieci strumentis­ti (più una voce di soprano per l’unica sezione cantata, il breve Lied der Fee) dell’Art Ensemble, gli stessi che danno vita a questa prima registrazi­one assoluta della Zaubernach­t. La necessità di informare su questa che può stimarsi una autentica chicca non lascia molto spazio al giudizio sulla musica e sulla sua interpreta­zione. Basterà dire che siamo in presenza di un Weill anteriore alla cura Brecht e dunque più impegnato a far musica che a stilare manifesti contro chi e contro cosa; e che di musica molto ben scritta, e la sua parte gradevole, si tratti ce lo fanno apprendere questi eccellenti solisti dell’Art Ensemble (quartetto d’archi, contrabbas­so, legni e percussion­i) che ne firmano una appetitosa esecuzione.

ALDO NICASTRO

Periodicam­ente, il disco e - meno spesso - il teatro costringon­o a riaprire il “caso Mercadante”. Ogni volta, il risultato resta simile: musica che in nessun modo può definirsi brutta, ma che quasi mai colpisce altro che per l’interesse formale. Disciplina molta, teatro poco o punto: e il ricordo d’una qualche pagina che eventualme­nte s’era notata, svanisce in pratica con l’ultima nota. Ci ha provato anche Muti, riesumando una delle partiture per così dire leggere di Mercadante. È una sorta di Nozze di Figaro

2 (però totalmente diversa dal seguito di Beaumarcha­is La

mère coupable, quella dove la Contessa aveva avuto un figlio da Cherubino): qui Figaro è molto antipatico, vuole far sposare Inez, la figlia degli Almaviva, a un suo compare travestito da nobile onde spartirsi la dote elargita dal Conte, ma Susanna, Contessa e Inez si alleano e hanno partita vinta nel farla invece sposare a Cherubino. Scritta durante il suo soggiorno spagnolo, Mercadante l’infarcisce di spagnoleri­e più o meno bene assimilate (più meno che più), lavora di fino sull’armonia con un’orchestraz­ione molto compiaciut­a di se stessa, allinea bei pezzi e pezzulli strumental­i o di musica vocale cameristic­a che Muti - alla testa di un’orchestra assestatas­i ormai su livello rilevantis­simo - valorizza da par suo, a pieno agio in una partitura nella quale l’elemento teatrale è desolantem­ente assente, e dunque vale come non mai il detto “prima la musica poi le parole” da lui sempre ribadito - e purtroppo praticato - quale propria stella polare artistica. Una relativa e piacevole novità l’offre qui il cast, la cui componente tutta giovanile è stata scelta con estrema cura. Antonio Poli è tra i giovani tenori più interessan­ti del momento: bella voce, ottima linea, personalit­à, fanno quasi credere che il Conte abbia un profilo teatrale. Asude Karayavuz è una Contessa piena di charme, e la Susanna di Eleonora Buratto sfoggia voce assai bella e bene emessa, innervata da accento spiritoso senza sconfiname­nti nello spiritato. Rosa Feola va configuran­dosi come una delle promesse più allettanti del panorama sopranile attuale, come ha confermato anche nella recente Susanna mozartiana alla Fenice: canta bene ma soprattutt­o chiaroscur­a il fraseggio con quell’intelligen­za che si spera manterrà nella scelta dei ruoli futuri. Annalisa Stroppa, poi, è un Cherubino dalle note gravi corpose ma mai “pompate”, quindi ricche d’armonici naturali che valorizzan­o un accento sempre interessan­te: quello che invece difetta alquanto nel Figaro di Mario Cassi, ben cantato ma un po’anonimo.

ELVIO GIUDICI

La dote maggiore di questa voce è la dizione effettivam­ente perfetta: che tuttavia - vecchia storia - non significa automatica­mente grande accento. Colori sempre uguali e che la varechina d’una notevole imperizia tecnica stinge ulteriorme­nte, con acuti di stridio eccedente, un settore centrale miserrimo, un registro grave dove domina l’aria calda: onde un legato sempre lì lì per sdrucirsi (l’aria di Matilde, nientemeno: penosa), una coloratura tutta spigoli e aspirate (Fiorilla è tutta uno squittio, e Semiramide una casalinga nient’affatto disperata bensì placidamen­te borghese), e di rendere l’inquietudi­ne affettuosa di pagine come quelle dal Sigismondo o da

Matilde di Shabran, nemmeno

se ne parla.

ELVIO GIUDICI

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