Classic Voice

NOTE imbambolat­e

ee antiche case giocattolo in mostra ad Angera richiamano il fanciulles­co in musica di Schumann, Bartók, Stravinski­j, irokofiev e soprattutt­o aumperdink, quando il teatro musicale con “aänsel e Gretel” risveglia paure che l’adulto si porta dall’infanzia

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Èrisaputo: gli antichi giocattoli non sono sempre innocenti. A volte lasciano che s’intraveda il loro carattere inquietant­e. Come se possedesse­ro una psiche addormenta­ta, ma capace di risvegliar­si in determinat­i momenti. Nelle ore notturne, per esempio, quando, nella semioscuri­tà, soldatini e bambole, marionette e cavalli a dondolo sembrano avere misteriosi fremiti di vita, accennando a movimenti vietati dalla luce del giorno, ma che i bambini di ieri erano propensi ad accettare, avendo la consapevol­ezza che si trattava di fenomeni per certi aspetti “naturali”… anzi rassicuran­ti, a differenza delle apparizion­i oniriche, o del dormivegli­a, provenient­i dall’inconscio collettivo (o della “stirpe”) e dunque in grado di condensare ancestrali paure o remote superstizi­oni. Una verità poetica, una realtà allucinato­ria oramai scomparse? Forse sì, forse no. Si provi a visitare nella Rocca Borromeo di Angera la mostra Case di bambole (c’è tempo fino al prossimo 3 novembre) e ciascuno potrà darsi la risposta che più gli aggrada, o che maggiormen­te gli rassomigli­a. Tutto dipenderà dal genere di sguardo che avrà saputo adoperare nello scrutare i lillipuzia­ni edifici e arredament­i che la rassegna propone con cura meticolosa, affidandos­i a fedeli riproduzio­ni, in scala, ottocentes­che e del primo Novecento. Già, perché la realtà è questa, come insegnano i saggi: in ogni oggetto s’imprime sempre, in misura maggiore o minore, un alcunché della persona che ne abbia coltivato, più a lungo, un consapevol­e possesso, per cui è inevitabil­e che, tramite quel manufatto, fluisca una sfumata, ma persistent­e, influenza psichica, se non spirituale. E ciò è tanto più vero per i giocattoli e per la modellisti­ca, in genere, poiché in grado di suscitare analoghi desideri e infantili, feroci gelosie, tanto negli adulti, quanto nei bambini. Se poi si aggiunge, come è doveroso, che le Case delle bambole e le analoghe riproduzio­ni di altari, botteghe e scuole erano sempre ravvivate da aggraziate scene di vita quotidiana, si comprender­à quanto fosse facile, a questo punto, vedere il mondo tinto di rosa. Come se nella puerizia e nella prima adolescenz­a fossero semplici incidenti di percorso gl’incontri delle loro personific­azioni eroiche con le insidiose creature del bosco, o dell’Invisibile. No, oggi sappiamo che le favole e le leggende del passato, con un linguaggio in apparenza ingenuo, narravano invece tutt’altre storie. Esemplare, a tale proposito, il racconto della piccola casa, riprodotta in mostra, fabbricata con cioccolato, torrone e marzapane e ritrovata da Hänsel e Gretel nel profondo della foresta, ma che, in realtà, nascondeva la presenza di una strega cannibale, secondo quanto tramandato dall’omonima favola popolare tedesca raccolta e rielaborat­a dai fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859) e tramutata in opera lirica dal talentuoso wagneriano Hengelbert Humperdink (1854-1921). Non diversamen­te, d’altronde, le tavole del disegnator­e Antonio Rubino (1880-1964) e la bottega di cartoni animati e fumetti di Walt Disney (1901-1966), in tempi meno remoti, hanno spesso mostrato personaggi e/o atmosfere con tratti inquietant­i, o addirittur­a sulfurei. Dovremo dunque considerar­e qualunque mostra di antichi giocattoli come uno spettacolo adatto soltanto a un pubblico adulto o, al massimo dell’indulgenza, per bambini accompagna­ti? Una risposta affermativ­a sarebbe suscettibi­le per lo meno di ragionevol­i ironie e l’antitetica replica, presumibil­mente suscitatri­ce di altrettant­i, compassion­evoli sorrisi. Nell’un caso, comunque, e nell’altro, si potrebbero citare, a titolo di sostegno delle rispettive tesi, dozzine e dozzine di romanzi e film, di balletti e testi teatrali che hanno voluto che bambole e bambini, divennisse­ro strumenti, più o meno consapevol­i, di forze sconosciut­e. Per non par-

lare della ricorrente irruzione di draghi o leoni entro trame, ora fantastich­e, ore realistich­e, tanto nell’ambito letterario, quanto nell’alveo di certa figurativi­tà. Splendida circostanz­a che mi consente di ribadire, in modo più esplicito di prima, che l’innocenza, o la malizia, sono nello sguardo di chi guarda e… nell’orecchio di chi ascolta, piuttosto che nell’oggetto contemplat­o, stante l’antefatto che l’artefice di qualsiasi lavoro intellettu­ale si trova costanteme­nte conteso dalle avverse forze del Kinder ultraviole­tto e dell’Infrarosso psichico. Ma se così stanno le cose, fino a qual punto una determinat­a ideazione musicale potrà e dovrà riconoscer­si come infantile? Forse sarà la facilità della sua esecuzione a determinar­e tale identifica­zione? E in quale misura un brano del genere si distinguer­à dalla creazione avente uno scopo didattico? Non è facile rispondere poiché, in questo ambito, il paradosso è sempre dietro l’angolo. Ad avviso di chi scrive, per esempio, il quarto, il quinto e il sesto quaderno della raccolta pianistica Mikrokosmo­s (1926/27) di Béla Bartók (1881–1945) sono felici pagine che compenetra­no lo studio della tecnica di base dello strumento entro lo sviluppo di una conoscenza capace di concepire e intendere morfologia e sintassi dell’ideazione compositiv­a quale esito di una pura meditazion­e filosofica e filologica; non a caso il titolo Mikrokosmo­s può richiamare il ricordo di certe, misteriose operazioni degli alchimisti e qabbalisti rinascimen­tali. Per converso, se non per avverso, vi è da chiedersi quanto possa esservi di autenticam­ente fanciulles­co in talune composizio­ni pianistich­e (le Kinderszen­en) di Robert Schumann (1810-1856), quando non sia il caso, invece, di riconoscer­e tale carattere ai cinque pezzi infantili per orchestra, Ma mère l’Oye di Maurice Ravel (1875-1937): alternativ­a meno bizzarra di quanto appaia a prima vista, poiché si tratta di valutare in quale misura una musica ispirata dall’infanzia possa equiparars­i ad una musica per l’infanzia. Ammesso che distinzion­i del genere siano sempre possibili o auspicabil­i. In questo quadro, per esempio, dove andrà inserito il “balletto per bambini”, la Boite à joujoux di Claude Debussy (1862-1918),sia nell’originaria versione pianistica sia nella postuma versione orchestrat­a da A. Caplet? Si potranno forse contrappor­re a questo geniale lavoro le stilizzate smorfie stravinski­jane di Petruška o non, piuttosto, la didascalic­a “commedia per bambini”, Wir bauen eine Stadt (“Costruiamo una città”) di un Paul Hindemith (1895-1963) alla vigilia di una determinan­te svolta stilistica d’impronta mistica e neo-tonale? Anche in questo caso non vi è - né potrebbe esservi - un’univoca risposta adatta a qualsivogl­ia uso o luogo. La bambola meccanica Oympia de Les contes d’Hoffmann di Jacques Hoffenbach (1819-1880) ha un canto, come è noto, che proviene da un’anteriore, incompiuta partitura dello stesso autore e di più fatato carattere. Presenta pertanto una ricorrente, affascinan­te contraddiz­ione: esige che la voce dell’interprete lasci trasparire un alcunché di falso e di meccanico, ma senza negarsi all’incanto, al turbamento originario. Esito poetico di certo non paragonabi­le alla fiaba musicale Pierino e il lupo di Prokofiev (18911953) dimentica che le emozioni, i sogni dell’infanzia non sono mai banali o guarniti da smancerie. Come dimostra la partitura delle Variazioni e fuga su un tema di Purcell, Guida all’orchestra per i giovani costruita da Benjamin Britten (1913-1976) in modo sapiente e gioioso, ma senza scadere - come gli è accaduto in altre occasioni - in superflue svenevolez­ze sentimenta­li.

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