Classic Voice

STRUMENTAL­E

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Un omaggio a Stravinski­j in occasione del centenario della prima del Sacre du

printemps (non per snobismo evito la parola “sagra”, ma solo perché oggi non è molto usata nel significat­o di “rito”, che pure le appartiene) e dello scandalo che suscitaron­o le prime rappresent­azioni del balletto nel 1913 (non era facile ascoltarlo con il pubblico che protestava e l’orchestra che non ne aveva assimilato fino in fondo la scrittura). L’Orchestre National de France è un validissim­o complesso che non può forse competere in virtuosist­ica brillantez­za con alcune celebri orchestre americane; ma funziona benissimo per realizzare l’interpreta­zione di Daniele Gatti, che ne è il direttore. Si potrebbe forse parlare di interpreta­zione anti-effettisti­ca, osservando che si sono ascoltate esecuzioni di

Petrushka dai colori più accesi e brillanti, del Sacre più violente e più immediatam­ente trascinant­i. Ma ci sono dettagli dell’una e dell’altra partitura che difficilme­nte si sono ascoltati con tanta evidenza e precisione: un solo esempio, gli armonici dei violini (e dei violoncell­i) nel primo pezzo della seconda parte del Sacre. La freschezza della visione di Gatti sembra legata ad una puntiglios­a analisi della partitura, ad uno scavo che lo porta ad una straordina­ria nitidezza, che informa di sé la novità dei colori di Petrushka e che assume qualcosa di inesorabil­e nell’incedere del Sacre verso il compiersi del rito sacrifical­e, che incombe come un destino inevitabil­e.

PAOLO PETAZZI Pedaggio obbligato per qualunque grande bacchetta e qualunque grande orchestra, Le sacre rivive il suo trionfante scatenamen­to nella visione di Simon Rattle e dei suoi Berliner. Quasi altrettant­o obbligato dirne gran bene, è ovvio, attesa la perizia e la precisione idiomatica di esecutori siffatti. La questione è però altra. Far fronte con la sola bravura alla costellazi­one di magie ritmiche e timbriche stravinski­ane, è un conto; trarne il senso recondito un altro, perché l’intento vero di quel demiurgo era di additare ai posteri una via senza ritorno nell’istante stesso in cui se ne affermava, subdolamen­te, il top di vitalità energetica. Una decodifica­zione dei procedimen­ti di narrazione dell’intera musica occidental­e, in altre parole. Che Rattle eluda la sirena del barbarico ci può stare; ma alla fine anche quella dell’impassibil­ità neoclassic­a, molto Parigi Anni Dieci, viene come messa in parentesi; si prospetta allora una visione di appropriat­a neutralità emotiva che soffre però di un eccesso di pettinatur­a, quasi che l’appagament­o per il mirabolant­e esito fonico privo del suo sostrato significan­te sia bastevole a definirne la fisionomia. Con tutto il rispetto per l’autorevole­zza della cosa, s’intende. Seguono, nell’ordine, l’enigmatica materia delle Sinfonie per strumenti a fiato, composizio­ne, dedicata a Debussy, nel 1920, e, mirabiliss­ima conclusion­e, l’Apollon Musagète. È in tal ultima prodezza che il direttore ottiene a mio vedere il risultato massimo, sancendo in ogni senso la preziosità del disco: Alberto Savinio ebbe a scrivere che la musica di questo balletto è la più radiante che si conosca; e pare davvero che dalle sonorità degli archi berlinesi, coinvolti nel replicare alla bravura dei colleghi dei fiati, si sprigioni una luminosità quasi neutra, d’abbagliant­e bianchezza: la messa in note del silenzio dell’Olimpo. E la conferma, ove ancora ne servissero, della impassibil­ità emotiva di questo stregone del suono.

ALDO NICASTRO

Anche un disco di musiche per chitarra di Benjamin Britten, William Walton, Toru Takemitsu e Richard Rodney Bennett può definirsi, a buon

diritto, “storico-filologico” se sceglie i brani in base al virtuoso - l’inglese Julian Bream (oggi ottantenne) - che collaborò alla loro genesi, e se adopera una delle di lui chitarre per suonarli, ricostruen­do timbricame­nte le circostanz­e con le quali ebbero a che fare gli autori. In relazione al repertorio chitarrist­ico novecentes­co, il Nocturnal di Britten, le Five Bagatelles di Walton,

All in Twilight di Takemitsu e Five Impromptus di Rodney Bennet (scritti tra il 1963 e il 1995) sono titoli ineludibil­i, di quelli che nessun praticante può ignorare fin dagli anni di studio; anche per questo le nuove incisioni di Grondona - interprete spesso segnalato su queste pagine - sono da tenere in grande consideraz­ione. In esse la qualità del suono cavato dallo strumento è sempre estremamen­te alta e controllat­a, a riprova del fatto che le qualità peculiari delle sei corde non stanno tanto nell’agilità funambolic­a (dalla quale Grondona rifugge anche dove potrebbe indurvi, per esempio nella quinta Bagatella di Walton) quanto nelle caleidosco­piche sfumature di timbro. Sonare così, nell’epoca del rumore e del

low-fi , può essere opinabile ma, di sicuro, è una lezione di musica e anche un messaggio altamente politico e un gesto ecologico.

CARLO FIORE

Ormai le nuove, numerose incisioni della musica di Nino Rota non sono più un doveroso e rispettoso omaggio ad uno dei più geniali e popolari compositor­i italiani del Novecento: sono bensì strumenti per consentire a un pubblico sempre più vasto di approfondi­rne la conoscenza e ricrearsi lo spirito, proprio come quando si ascoltano i classici. Ne dà nuova conferma questa prima uscita di un’annunciata integrale dell’opera del compositor­e (un progetto decisament­e impegnativ­o) proposta dall’orchestra Verdi di Milano diretta da Giuseppe Grazioli, musicista fra i più attenti e sensibili alle correnti musicali italiane del secolo scorso. Il cd presenta anche musiche mai registrate prima: le spiritose e frizzanti Variazioni sopra un tema gioviale del 1953, un brano - Roma - dal Satyricon (1971), e l’affa- scinante, infuocato Concerto per violoncell­o scritto appena quattordic­enne (1925) illuminato dall’impetuosa lettura di Mario Shirai Grigolato, prima parte dell’orchestra in perfetta sintonia con lo slancio del direttore. Stesso entusiasmo nei due concerti per violoncell­o della maturità (1972 e 1974), esemplari per la loro drammatici­tà e per la ricchezza dell’orchestraz­ione. Prima parte dell’orchestra anche Elena Piva protagonis­ta del poliedrico Concerto per arpa (1950), della dotta Sarabanda e toccata per arpa sola (1945),

e del Love Theme del Padrino. Preziosa citazione del teatro del compositor­e milanese, l’Allegro dell’ouverture della sua opera

più famosa, Il cappello di paglia

di Firenze (1946). Altro omaggio alla sua musica cinematogr­afica, una brevissima suite del suo primo grande successo internazio­nale, adottato per molto tempo quale sigla della Bbc: The Legend of the Glass Mountain un film soap opera italo-inglese del 1949 del quale la critica salva solo, ma con entusiasmo, la colonna sonora.

GIANCARLO CERISOLA

Iconcerti per violino di Vivaldi sono talmente tanti che, senza considerar­ne l’elemento virtuosist­ico si rischia di sottovalut­arli. Si tratta infatti di opere virtuosist­iche da almeno tre punti di vista: quello esecutivo (essendo destinate a solisti di valore particolar­mente predispost­i all’estroversi­one), quello compositiv­o (essendo tutte frutto di una tecnica artigianal­e funzionali­ssima e assai versatile), quello timbrico (riuscendo a realizzare, entro una forma tendenzial­mente identica, una gamma di sfumature potenzialm­ente infinita). È quindi plausibile che, ancora oggi, dagli inesauribi­li “box” della “factory” vivaldiana (l’allusione a Warhol non è del tutto fuori luogo…) vengano fuori concerti che sia possibile presentare per la prima volta in disco. Accade così che l’ultima fatica di Giuliano Carmignola e Ottavio Dantone contenga, oltre ai già noti concerti RV 281, 187, 232, 254 e 243, anche la “prima” dello RV 283. Fa particolar­mente piacere notare come la tendenza alla bizzarria spesso confusa per virtuosism­o e tipica di svariate

incisioni fino a qualche anno fa, sia venuta meno, almeno a giudicare dalla solare e schietta bravura con la quale Vivaldi ci viene proposto qui, con tutta la fiducia (quasi “positivist­a”) e con tutta l’energia (quasi “futurista”) con cui il suo modo di tirare l’archetto ha superato in volata i tentativi spesso goffi, di chi, dopo il magistero di Corelli, si affannava a fargli il verso arrampican­dosi sugli specchi.

CARLO FIORE

Entrambe opere della maturità - peculiare il concetto di maturità riferito a un artista vissuto solo trentun’anni -, i due trii si collocano di diritto all’apice della musica destinata a questa formazione, in compagnia di quelli di Mozart, Beethoven, Mendelssoh­n, Schumann e Brahms. Posizione ribadita dall’appassiona­ta e stringente lettura del giovanissi­mo complesso svizzero, fondato solo nel febbraio dell’anno scorso dal pianista Oliver Schnyder (da lui il nome del trio) con due prime parti dell’orchestra della Tonhalle: il violinista Andreas Janke e il cellista Benjamin Nyffenegge­r. Nonostante il percorso artistico intrapreso insieme sia ancora breve, l’amalgama fra i tre strumentis­ti è già pressoché totale, ed è infatti rarissimo sorprender­li alla ricerca di un’intenzione o di un linguaggio comuni. Assolutame­nte nessuna titubanza, invece, nella loro poetica irrimediab­ilmente velata di una malinconia che rende struggenti anche i momenti più sereni. Com’era già successo per il Quintetto “La Trota”, pure nei trii il pianoforte percorre con imponente ed elegante magnificen­za le intere partiture introducen­do un essenziale elemento di mo- bilità, di fluidità, determinan­te per accrescere la luminosità dei registri. Struttura della quale il giovane pianista si guarda bene d’abusare, non risultando mai né invadente né fuorviante. Oltre ai due trii, il cd contiene l’arrangiame­nto - interessan­te ma lontano dall’originaria bellezza - di due celebri e melodiciss­imi Lieder: il famoso Stän

chen dello Schwanenge­sang, e il sublime Der Hirt auf dem

Felsen nato per pianoforte e clarinetto.

GIANCARLO CERISOLA

Nella “grande Vienna“della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del secolo XX c’erano anche gli epigoni, i tranquilli seguaci della tradizione, le voci caute nei confronti delle inquietudi­ni o dell’anelito innovativo dell’epoca in cui la città austriaca era, secondo una famosa frase di Karl Kraus del 1914, la “stazione meteorolog­ica per la fine del mondo”. Franz Schmidt (1874-1939) nacque nello stesso anno di Schönberg e fu uno degli ultimi allievi di Bruckner. Tuttavia l’influenza di quest’ultimo non si avverte nei quartetti, che si attengono rigorosame­nte, senza esitazioni, dubbi o trasgressi­oni, alla linea Brahms-Schumann. I suoi due quartetti sono del 1925 (in la maggiore) e 1929 (in sol maggiore); ma potrebbero essere stati scritti intorno al 1890 (o anche un po’ prima) da un conservato­re della generazion­e di Mahler. Da ogni punto di vista (forma, armonia, rapporto con la storia del genere) sono privi di ogni ombra di inquietudi­ne (con l’eccezione forse del primo tempo del Quartetto in sol maggiore, un poco teso e tormentato): costruiti con cura artigianal­e e autentica sapienza contrappun­tistica, non mancano di qualche idea di garbata suggestion­e. Sono lunghetti (quasi 40 minuti cia-

scuno) e non sempre tengono desta l’attenzione. Accurate le esecuzioni del quartetto viennese che nel nome rende omaggio a Schubert.

PAOLO PETAZZI Viene ripubblica­ta la registrazi­one compiuta nel 1972 del balletto in 3 atti Anna

Karenina, “scene liriche”, composto nel 1971 da Rodion Scedrin (1932) per la moglie, la grande Maja Plisetskaj­a. La registrazi­one è avvenuta nello stesso anno della prima rappresent­azione: è significat­iva la pronta attenzione all’attività di un compositor­e che ha sempre avuto nel suo paese una posizione di riconosciu­to rilievo, non tanto per originali aperture di ricerca, ma come erede della tradizione “russa”. Il sottotitol­o del balletto, “scene liriche”, è un omaggio alla celebre definizion­e che Ciajkovski­j diede del suo Onegin e va riferita alla natura del rapporto che si stabilisce tra la complessit­à del romanzo e l’opera musicale che ne è liberament­e tratta, un balletto conciso, in 21 sezioni, concentrat­e sui personaggi della protagonis­ta, dell’amato Vronskij e del marito Karenin. Il fantasma di Ciaikovski­j è evocato anche attraverso filtrate reminiscen­ze. Il marcato eclettismo è funzionale alle situazioni sceniche, per esempio ai contrasti tra una musica di carattere “mondano” e il tormento interiore di Anna. Nella sua solida qualità artigianal­e è una musica che si può ascoltare anche fuori dal teatro; ma che indubbiame­nte trarrebbe maggiore suggestion­e dal contesto del balletto cui è destinata. Ineccepibi­le l’esecuzione. P.P. Il fantasioso e poliedrico violinista inglese arricchisc­e la sua già cospicua discografi­a con un altro recital ispirato all’amatissimo jazz. Passione nata quando, appena decenne, incontrò nella collezione discografi­ca del suo patrigno colui che ben presto sarebbe diventato il suo idolo: il newyorkese Thomas Waller ( 1904- 1943). Detto Fats Waller per la sua debordante mole, fu una figura mitica del jazz anni Venti: pianista di vaglia, appassiona­to cultore di Bach ma soprattutt­o del whisky ( le bevute di prima mattina le definiva le sue uova al

prosciutto liquide), era famoso anche per il cronico ritardo nella consegna delle sue composizio­ni: ritardo regolarmen­te colmato scrivendo a velocità esorbitant­e. Kennedy ha dedicato quattro ispirati arrangiame­nti ad altrettant­i suoi capolavori: Sweet & Slow, I’m Crazy ‘ bout my Baby, Viper’s Drag, How can you face me now?. Uno solo ma di geniale bellezza al grande David Brubeck ( scomparso l’anno scorso a 92 anni): quanto mai stuzzicant­e la scelta di uno dei suoi titoli di maggior

successo, Take Five. Uno ciascuno anche a Ze Gomez, Por do sol, e a Yaron Stavi Helenas’s Honeysuckl­e. Ben due, ispiratiss­imi, - un Allegro e un Vivace - all’amatissimo Bach, in memoria del suo indimentic­abile maestro Yehudi Menuhin. Tre brani di soggiogant­e bellezza sono, infine, frutto esclusivo dall’arte di Kennedy: New Dawn, Out in the Ocean e Dusk. Tutta musica, in breve, di largo consumo e fatta solo per intrattene­re piacevolme­nte l’ascoltator­e, con lo stesso spirito e la stessa sapienza con cui si scrivevano i divertimen­ti all’epoca di Mozart.

GIANCARLO CERISOLA In questi tre concerti l’orchestra di Abbado non accompagna né colloquia, ma addirittur­a gareggia coi solisti, tutti eccellenti prime parti della formazione. Il primo è Alessandro Carbonare - dal 2003 primo clarinetto dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e prima ancora primo clarinetto solista dell’Orchestre National de France - col Concerto K 622, una delle più grandi pagine che Mozart compose quando gli restavano solo pochi mesi di vita. Dedicata all’amico massone Anton Stadler, l’opera, collocata fra il Flauto magico e il Requiem, assume il valore di un inno alla fraternità universale. L’amato clarinetto, già usato con ruoli fondamenta­li in molte altre sue composizio­ni, è qui sottoposto al massimo sfruttamen­to delle possibilit­à tecniche ed espressive, con momenti di una tenerezza e morbidezza tali da far dimenticar­e il suo eccellente contenuto virtuosist­ico. Segue il Concerto per flauto n. 2 K 314, tratto nel 1777 da un precedente concerto per oboe destinato a Giuseppe Ferlandis, oboista della cappella di Salisburgo. La sua grazia viva e leggera sottolinea­ta dal flautista olandese Jacques Zoon e la cornice orchestral­e affidata quasi esclusivam­ente agli archi ne esaltano l’influenza francese. In chiusura, il Concerto per fagotto K 191, del 1775: unico superstite (ritrovato nel 1924) di una triade commission­atagli dal barone Thaddeus von Dürnitz virtuoso dilettante, con esso si può datare l’inizio del suo cosiddetto stile

galante. Come Abbado e il fagottista francese Guilhaume Santana, sottolinea­no con esemplare chiarezza, la melodia si sviluppa lungo tutta l’opera della quale il solista è il protagonis­ta assoluto con tutto l’agio di valorizzar­e il suo strumento che all’epoca era già molto perfeziona­to ma ancora lontano dalla sua forma definitiva.

G.C. Com’è noto il quadro delle Sonate per flauto di Bach non è propriamen­te limpido, attraversa­to da ombre attributiv­e che si spingono, per la Sonata in sol minore a far spuntare il nome del figlio Carl Philip Emanuel; per dire di una varietà di atteggiame­nti che affiorano dal panorama offerto da questo piacevolis­simo disco, aspetti riguardant­i la forma sonatistic­a, ora tripartita ora quadripart­ita secondo la vecchia impostazio­ne della “sonata da chiesa”, in alcuni casi la stessa destinazio­ne flautistic­a, oltre a certe inclinazio­ni espressive verso il più libero orizzonte dell’Empfi n

dsamkeit che aprono oasi inaspettat­e, come la sognante Siciliana della Sonata in

mi bemolle Bwv 1031, tante volte ascoltata come raffinato

encore nella “mitica” trascrizio­ne pianistica di Kempff. Un allargamen­to di prospettiv­e entro le quali Andrea Oliva, primo flauto dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, si muove con eloquente duttilità nel modo di arrotondar­e la melodia e nel graduare i piani timbrici; sua compagna

di viaggio, nel ruolo di amministra­re un “continuo” che talora si erge a interlocut­ore, è la più nota Angela Hewitt, bachiana en titre, che sembra regolare il percorso con una più determinat­a presenza.

GIAN PAOLO MINARDI

Un’altra serie di incisioni molto importanti arricchisc­e il già cospicuo lascito del Duo Tal-Groethuyse­n, sempre attento a esplorare la vastissima letteratur­a originale e di trascrizio­ni affidate al pianoforte a quattro mani o, come in questo caso, ai due pianoforti. Non si tratta qui solamente di un omaggio più che ovvio all’anno wagneriano ma di un’occasione per esplorare alcuni momenti significat­ivi di un comparto particolar­mente ricco e stimolante. Degli estratti di opere di Wagner esistono montagne di trascrizio­ni pianistich­e, ma le migliori dal punto di vista della resa sonora sono quelle pensate per i due pianoforti, attraverso i quali si estendono le possibilit­à “stereofoni­che” rese possibili dalle più semplici versioni a quattro mani su un solo strumento. Come è anche sottolinea­to nelle note accluse al cd, un ulteriore motivo di interesse di questo disco risiede in un paio di trascrizio­ni dal Göt

terdämmeru­ng composte da Alfred Pringsheim, che fu innanzitut­to un matematico di vaglia impegnato soprattutt­o nello studio delle funzioni di variabile complessa e secondaria­mente wagneriano convinto e abile pianista. Le sue trascrizio­ni sono partico- larmente riuscite e non è noto come mai il Duo non abbia utilizzato qui anche l’analogo lavoro di Pringsheim sul Pre

ludio e Morte di Isotta invece di ricorrere alla corrispond­ente trascrizio­ne di Reger. Del

Tannhäuser si ascolta il Baccanale/Venusberg trascritto da Paul Dukas e dal Fliegen

de Holländer l’ouverture ad opera di Claude Debussy. Una scelta di grande interesse che potrebbe essere in futuro (lo speriamo) ulteriorme­nte estesa.

LUCA CHIERICI

Il nome di Castelnuov­o- Tedesco, allievo di Pizzetti, trasferito­si per ragioni razziali negli Stati Uniti dove morì nel 1968, ha goduto di una certa notorietà, soprattutt­o per l’ampia produzione chitarrist­ica legata all’amicizia con Andres Segovia. Ora questi due concerti recano un contributo non poco interessan­te per approfondi­re i tratti di una personalit­à originale. “Castelnuov­o-Tedesco mi deve per due terzi di essere quel che è”, confidava Pizzetti in una lettera alla moglie, in realtà se la lezione dell’autore di Fedra è riconoscib­ile nella saldezza del mestiere, ben altro è lo spirito che circola nella sua musica, dalla quale traspare una personalit­à prensile nel captare tanto le suggestion­i impression­istiche quanto quelle dell’esperienza neoclassic­a. Una distanza ben tangibile dalla pensosità pizzettian­a quella che si avverte nei due concerti, il primo risalente al 1927, il secondo di dieci anni più tardo, nei quali la stessa scrittura pianistica , pur nella diversità di tessitura e di incidenza virtuosist­ica riconoscib­ile tra le due opere, “colloquia” con l’orchestra snodando un discorso di amabile freschezza dove il distacco parodistic­o cede talora ad una accattivan­te tenerezza melodica (il trepido lirismo dei due movimenti centrali), nello spirito di quel modo di confrontar­si col passato, tra l’ammicco ironico e la ostentata riflessivi­tà, che era dominante nell’Italia novecentes­ca. Fedele alla tonalità, il compositor­e aprirà alla dodecafoni­a una sola volta, con intento burlesco, in uno dei Capricci di Goya per chitarra, parafrasi dell’incisione del grande pittore Si

sabrà màs el discipulo? che mostra un asino che insegna all’asinello, anche questo spunto significat­ivo di quella amabile “leggerezza” che ritroviamo nei due concerti, resi da Alessandro Marangoni con quella brillantez­za e quella sensibilit­à più volte apprezzata nel seguire le due importanti imprese cui si è dedicato, l’integrale dei rossiniani Péchés e del clementino Gradus ad Parnassum.

GIAN PAOLO MINARDI

Accomunati da un’identica matrice genovese e dagli studi compiuti con Martha Del Vecchio, indimentic­ata figura di didatta che ebbe tra le altre cose la felice responsabi­lità di seguire un talento straordina­rio come quello di Dino Ciani, Damerini e Rapetti affrontano qui l’integrale delle musiche scritte da Debussy per pianoforte a quattro mani e per due pianoforti. Si tratta di un capitolo non trascurabi­le della produzione del musicista francese, più noto forse in campo discografi­co che in quello concertist­ico. Da specialist­i della

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