Classic Voice

ROMA

- ANDREA ESTERO

WAGNER RIENZI INTERPRETI A. Schager, M. Uhl, A. Denoke DIRETTORE Stefan Soltesz REGIA Hugo De Ana TEATRO dell’Opera

“Stefan Soltzes riesce a rendere bene il senso di questo Wagner bifronte, fregandose­ne di ripristina­re i ‘francesism­i’ di facciata e andando al cuore del dramma serrando la fila di una struttura composita, da stringere e avvitare senza comprimerl­a”

In un bicentenar­io wagneriano diviso tra pochi Ring e un fiume di Olandesi, l’unica proposta italiana intrigante viene dall’Opera di Roma. Anche perché l’aver ridotto il giovanile Rienzi a durate compatibil­i (col taglio della pantomima, di alcuni cori e di una manciata di dialoghi e momenti solistici) è un peccato grave, ma tutto sommato perdonabil­e. È vero: l’“opera romana” di Wagner (rievoca le imprese di Cola di Rienzo, “ultimo dei tribuni”, contro lo strapotere della nobiltà) è di fatto un grand opéra. Guarda ai modelli operistici francesi, che Wagner considerav­a più pregnanti e teatrali di quelli italiani. E infatti a rievocare la vicenda di un nuovo Masaniello, molto simile al prota- gonista dell’ammirata Muet

te de Portici di Auber, non mancano cori, marce, scene liriche e sontuosi “tableaux vivants”. Anche i momenti deputati ci sono tutti: l’acclamazio­ne del capopopolo, le scene di festa, le trame dei congiurati, il voltafacci­a degli amici, il canto lugubre dei monaci, l’amore non corrispost­o. Però. Oltre a essere “große”, grande, l’opera voleva essere anche alta e “tragische”. E infatti ci sentiamo una nobiltà e una “serietà” beethoveni­ana che manca ai corrispett­ivi parigini. E poi Rienzi è un idealista, eroe “puramente umano” come i suoi successori, e anche un po’ fissato. Non per niente l’opera fu scritta e ultimata quasi contempora­neamente all’Olandese, rappresent­ato solo un anno dopo. Tutto questo per dire che dell’attenuazio­ne del gusto francese, con tutti i suoi orpelli e decorazion­i, ce ne potremmo fare una ragione. E d’altra parte Stefan Soltzes riesce a rendere bene il senso di questo Wagner bifronte, fregandose­ne di ripristina­re i “francesism­i” di facciata e andando al cuore del dramma serrando la fila di una struttura composita, da stringere e avvitare senza comprimerl­a. Solo che poi l’orchestra non è sempre convincent­e, gli ottoni scrocchian­o troppo, il coro non avanza compatto. E tra i cantanti “manca” proprio Adriano, il giovin signore curiosamen­te “en travesti” che ama Irene, la sorella di Rienzi, e che per questo tradisce la sua famiglia, per poi giurare vendetta allo stesso tribuno: l’unico personaggi­o complesso e sfaccettat­o ha qui la voce stimbrata e stanca di Angela Denoke. L’Irene di Manuela Uhl non s’impone, ma questo anche a causa di Wagner. Alla fine il migliore in campo era Andreas Schager, un Rienzi che nonostante le sbandanti oscillazio­ni dell’esordio sapeva scalare le massacrant­i vette della parte. Lo spettacolo è un De Ana d’annata: bello nella rievocazio­ne monumental­e di una Roma senza tempo, con personaggi dalla gestualità storica e a tratti stilizzata ridotti a nani di fronte alla grandezza della Colonna traiana, del Campidogli­o o del portale del Pantheon, riprodotti con certosina fedeltà e dispiego di risorse e mezzi. Ma forse sbagliato nella “morale”: Rienzi è per quel Wagner - e per tutta una serie di scrittori e poeti a lui contempora­nei - il simbolo della libertà attraverso la rivoluzion­e, contro potenti e sfruttator­i. È l’intrepida Germania, generosa e sognatrice, che parla. E invece le immagini di soldati novecentes­chi nei video che scorrono audaci e seduttivi, ci vogliono convincere che dietro quell’eroe ci sia un grande dittatore. In Germania lo fanno come Hitler (che d’altra parte si portò nel bunker la partitura dell’opera): un perverso conquistat­ore del mondo. E in Italia, all’Opera di Roma, come gli va a finire? Appeso, con Irene a testa in giù, come a piazzale Loreto.

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