TORINO
CIAIKOVSKIJ EVGENIJ ONEGIN INTERPRETI V. Ladjuk, S. Vassileva, M. Aksenov, A. Vinogradov, C. Bosi, M. McLaughlin DIRETTORE Gianandrea Noseda REGIA Kasper Holten TEATRO Regio
“Lo scandirsi della memoria è affidato a due ballerini, che nell’impersonare Tatiana ed Evgenij vivono i momenti topici della loro vicenda mentre accanto a loro si affiancano le rispettive figure adulte”
Potrebbe sembrare un (banale) spettacolo in flashback principiato nel silenzio iniziale durante il quale vediamo una Tatiana adulta ed elegantissima leggere convulsamente una lettera: è invece qualcosa di molto più articolato ma soprattutto infinitamente più aderente alla poetica di Ciaikovskij. È un percorso esistenziale scandito dalla memoria, in cui Tatiana e Evgenij ripensano ai se stessi di diversi anni prima, chiedendosi cosa avrebbe potuto essere “se”, cosa sarebbero diventati “se”, e insomma come e perché quella felicità - che Tatiana ricorda quanto fosse “così, vicina, così vicina” - si sia invece allontanata mutandosi in grigia, melanconica realtà dove a farla da padrona è l’abitudine. Lo spettacolo di Kasper Holten (coproduzione col Covent Garden dov’è nato qualche mese or sono) è l’Onegin che personalmente più mi ha convinto dopo quello, magistrale, di Dmitri Tcherniakov presente anche nei cataloghi dvd. Lo scandirsi della memoria è affidato a due ballerini, che nell’impersonare Tatiana ed Evgenij vivono i momenti topici della loro vicenda mentre accanto a loro si affiancano le rispettive figure adulte, che con esse stabiliscono un muto, teatralissimo dialogo: gestualità e mimica vengono dunque sdoppiate in un passato rivissuto in presa diretta nel presente che lo ricorda con lancinante struggimento. Ne consegue come non solo tutta la vicenda, ma anche i luoghi dove essa s’è svolta (che per essere appunto un luogo della memoria è una scena unica), assumano la tinta data loro dai due protagonisti. Entrambi hanno dovuto subire costrizioni e angherie d’un ambiente ristretto, chiuso in una remota provincia da dove hanno potuto uscire lui viaggiando e lei sposando un nobile militare introdotto a corte: la festa in casa Larina è dunque una sorta di incubo in cui tutti sono vestiti uguali e in nero, tutti si muovono a scatti e a gruppi compatti, dove a definire gli “a parte” basta uno svariare delle splendide luci, e soprattutto dove Tatiana dialoga in spirito col proprio doppio giovanile, scorgendo non solo quanto abbia sofferto, ma anche quanto non abbia saputo opporsi con efficacia alle ragioni di tali sofferenze. In tal modo, assume molto più spessore la figura di Evgenij, di solito evanescente e soprattutto antipatica: uno di quegli intellettuali dotati d’intelletto ma non di carattere, quei deboli che i problemi non li affrontano né li subiscono (anche perché abbienti) bensì li evitano fuggendo sempre preferendo atteggiarsi a outsider. La frequente compresenza dei personaggi deputati all’azione e di quelli che la subiscono o di cui si parla (mezzo supremamente efficace, a teatro, ove lo si sappia usare con criterio) assume valenza strepitosa nel finale, capace come mai prima di riassumere perfettamente non solo la situazione ma, ben di più, le sue implicazioni emotive. Dal duello, il cadavere di Lenskij è immobile al proscenio quale atroce memento, e adesso sta davanti agli altri tre personaggi. Gremin compare, muto e dolente, ad assistere all’ultimo colloquio di Evgenij con Tatiana: questa comprende le ragioni del cuore, ma è stavolta lei, come un tempo Evgenij, a non saper reagire alle costrizioni sociali che la bloccano con un uomo molto stimato ma poco o punto amato, e col quale il matrimonio è assai dubbio sarà felice. Anna Karenina non ce l’ha fatta, insomma, perché Vronski è rimasto un Evgeni: ma ci ha quantomeno provato, mentre Tatiana non saprà mai se il suo Evgeni è davvero cambiato o fa solo finta. Noseda dirige scansando con evidente impegno ogni intrusione di melassa o anche solo di sentimentalismo, ma il rimedio finisce con l’essere molto peggiore del male giacché a furia di asciugare e sottrarre se ne va anche gran parte del sentimento, che di quest’opera è invece, piaccia o no, componente essenziale che d’altronde non si vede cos’abbia di così riprovevole. Svetla Vassileva è sempre bellissima, sempre un filo aspra negli acuti, però una regia tanto articolata si giova enormemente della sua rilevante capacità di stare in scena, ad ogni gesto accoppiando sempre un accento capace di valorizzarlo. Vasilij Ladjuk è un Onegin di voce ampia, robusta e dal bel colore, non altrettanto espressiva di quella della Vassileva ma neppure inerte e col vantaggio di acuti fermissimi e ben timbrati. Se nel cast (che vanta, cosa rara, ruoli di fianco quasi tutti eccellenti a cominciare da Carlo Bosi, impagabile Monsieur Triquet) il buco nero è il basso Aleksandr Vinogradov con la sua voce rozza e sgraziatissima, la presenza più felice è senz’altro Maksim Aksenov. Lo ricordavo in un Tabarro londinese quale pessimo Luigi, e lo ritrovo quale il Lenski migliore (timbro assai bello, grande capacità di sfumare, alleggerire, colorire, insomma esprimere) che abbia sentito da un bel po’ di tempo, a riprova di quanto purtroppo conti, in un giovane, la giudiziosità delle scelte: una delicata voce di lirico, spinta verso i Cavaradossi, i Canio e appunto i Luigi è destinata a rompersi dopo pochi anni, come è sempre successo e come purtroppo continua e continuerà a succedere.