BARI
MOZART COSì FAN TUTTE INTERPRETI A. Kasyan, A. Bonitatibus, M. Cassi, Y. Shi. P. Bordogna, V. Cangemi DIRETTORE Roberto Abbado
REGIA Davide Livermore TEATRO Petruzzelli
“Però dalla commedia ‘giocosa’ è facile bordeggiare la farsa. Può succedere. È successo”
Una coppia si ricompone, l’altra si sfascia. Così, con un finale mozartianamente ambiguo e imprevedibile, Davide Livermore conclude la commedia, scansando sia il cliché dell’impossibilità di (ri) amarsi a tutti i costi, sia l’insistenza sulle perfette simmetrie, a volte stucchevoli. Bene: il Così respira il razionalismo cinico del secolo dei Lumi, certo, ma non esageriamo. Però dalla commedia “giocosa” è facile bordeggiare la farsa. Può succedere. È successo: di trovate, condite da mossette, in questa regia, ce n’erano fin troppe. Non tanto l’ambientazione da crociera d’epoca, con gli uomini marinai ai comandi del capitano Don Alfonso e le fidanzate accolte nell’esclusiva vacanza premio (ah, c’era anche il mare di Napoli, con tanto di golfo e passaggio per i Faraglioni, per quanto lo skyline vesuviano sia alla fine teatralmente poco rilevante). No, era proprio l’indigestione di sketch a portarci fuori strada: il medico gay che alla fine viene buttato in mare, i cori ritmati al suono di aerobica e fitness da spiaggia, l’“aura amorsa” con il playback del cantante tipo Rotonda sul mare. Mentre sottocoperta Despina occhieggia dall’oblò impegnata a farsi tutta la ciurma.
Gli smaliziati costumi delle due sorelle ferraresi, luttuosi ma scosciati, bella intuizione a dire della loro consapevole partecipazione alla finzione, non vengono invece registicamente “intercettati”. D’altra parte l’idea visiva di partenza - far ondeggiare l’imbarcazione sopra un mare restituito con perizia videografica, metafora dell’oscillazione e perdizione dei caratteri e desideri - alla fine è troppo insistita e didascalica. “Come scoglio immoto resta”: e la nave vacilla ma resiste alla bufera.
Il tono da commedia leggera, leggerissima, era di fatto innescato dalla presenza di un Don Alfonso senza il dovuto peso specifico: Paolo Bordogna ha sciorinato tutto il suo repertorio vocal-scenico da buffo rossiniano, divertente ma non insinuante. Così come la Despina di Veronica Cangemi risultava fin troppo avara di ammiccamenti canori. Non si può dire bene neanche della Fiordiligi di Anna Kaysan, abile nella coloratura, approdante però su acuti acidi o gravi vuoti. Bravini gli altri tre (Anna Bonitatibus, Mario Cassi, Yije Shi), per quanto non sempre aiutati dalla direzione di Roberto Abbado: da una parte ammirevole nel voler ripristinare un suono asciutto e parco di vibrato, assumendo i modi (se non gli archetti) della prassi musicale settecentesca; dall’altra problematica nella rigida alternanza tra momenti concitati e altri decisamente dilatati (la seconda aria di Fiordiligi, estenuante). Che, con la scrupolosa riapertura di alcuni numeri sempre omessi, ci hanno riportato sulla terraferma, insieme con la chias- sosa compagnia, solo a notte fonda.