PARMA
RAVEL CONCERTO PER LA MANO SINISTRA LE TOMBEAU DE COUPERIN DEBUSSY FANTASIA ÉPIGRAPHES ANTIQUES, N. 1 POULENC LES BICHES PIANOFORTE Enrico Pace FILARMONICA Arturo Toscanini DIRETTORE Yves Abel AUDITORIUM Paganini
“Nell’eseguire questo Concerto la maggior difficoltà riguardava la mano destra, quella di vincere cioè la tentazione di aiutare la sinistra”
Va considerata ben più di una “boutade” l’affermazione fatta dal nostro Dallapiccola nella convinzione che Ravel avrebbe scritto un Concerto per la mano sinistra anche se non avesse ricevuto la committenza del ricco Wittgenstein il quale, rimasto mutilato del braccio destro, ordinò al fior fiore dei musicisti, da Strauss a Prokofiev, fino al giovane Britten opere che gli consentissero di ridar senso attivo alla sua carriera: il capolavoro tra questa rosa è indubbiamente il Concerto raveliano, nato da quella sfida che è insita nella poetica del musicista, indotta spesso, come in Bole
ro, dalla privazione, dal ridurre il materiale al minimo oppure, nel Concerto, dall’immaginare nella complessità della scrittura la presenza delle due mani; in una lontana intervista dopo un memorabile concerto al Regio il grande Robert Casadeus, che aveva suonato a quattro mani con Ravel, mi confessava argutamente che nell’eseguire questo Concerto la maggior difficoltà riguardava la mano destra, quella di vincere cioè la tentazione di aiutare la sinistra. Sfida estrema per l’esecutore, dunque, che l’altra sera, nell’appuntamento di Nuove Atmosfere, “tutto francese”, è stata affrontata, con l’ardimentosità e l’intelligenza musicale che in altre occasioni abbiamo potuto ammirare, da Enrico Pace (recente Premio Abbiati insieme a Kavakos) nel modo con cui ha saputo confrontarsi e partecipare consapevolmente alla temperie di drammaticità che domina questo capolavoro. Una classe pianistica che ha trovato più sottile affioramento nella più rara composizione inserita nell’impaginato della serata, quella Fantasia di un Debussy giovane che, non essendo stata mai eseguita vivente l’autore, più per ragioni contingenti che non per ripudio, è rimasta ingiustamente avvolta da un clima di sospetto che solo di recente è parso sfatarsi; l’ascolto in effetti è di grande interesse nel lasciar intendere il germinare di un linguaggio, anche pianistico, che sembra decantare certe matrici, da Massenet a Fauré, per inoltrarsi verso altri orizzonti, qui appena accennati – il misterioso trapasso tra il Lento e il colorito finale – e tuttavia significativi. Limiti si possono cogliere se mai nel non sempre risolto rapporto tra il pianoforte, in ruolo dichiaratamente concertante, e un’orchestrazione eccedente, aspetto reso ancor più evidente dalle condizioni acustiche dell’Auditorium. Quali fossero gli “altri orizzonti” cui sarebbe giunto Debussy lo steso Pace ha voluto indicarlo fuori programma con una stupefatta pagina, sottilmente inquietante, della grande maturità, la prima delle Épigraphes antiques, “Pour invoquer Pan, dieu du vent d’été”. Uscito di scena il pianoforte la seconda parte ritrovava il Ravel toccato dalla classicità del Tombe
au de Couperin, magistrale calligrafo nel raffinato gioco