TRIESTE
MOZART LA CLEMENZA DI TITO INTERPRETI Giuseppe Filianoti, Eva Mei, Laura Polverelli DIRETTORE Gianluigi Gelmetti REGIA Jean Louis Grinda TEATRO Verdi
“Sugli scudi, un capitano di lungo corso quale Gianluigi Gelmetti governa il tutto con raffinata, precisa musicalità e un occhio sempre vigile al palco”
Che la Clemenza venga messa in scena per la prima volta al Verdi di Trieste, inaugurato quale “teatro Nuovo” dieci anni dopo la prima dell’opera, la dice lunga su come l’estremo lavoro mozartiano debba ancora farne di strada, pur in tempi di rivalutazioni e riscoperte. Per fortuna, a rendere meno colpevole il ritardo ci pensa un allestimento di livello ragguardevole e connotato in primis da correttezza e sobrietà. Nessun tentativo da parte del regista Jean Louis Grinda di voler soverchiare lo spirito settecentesco (e volutamente rétro) che permea l’opera, nessuna forzatura, nessun protagonismo. I costumi, di Françoise Raybaud-Pace, proprio al ‘700 si rifanno (parrucche comprese) mentre la scena unica, di Pier Paolo Bisleri, bella e d’ispirazione palladiana, dal sapiente e suggestivo uso delle luci di Claudio Schmid è continuamente cambiata e rinnovata nell’atmosfera. Solidità e alto livello riguardano anche il cast a cominciare dal Sesto di una Laura Polverelli dalla personalità debordante, nelle note e nella recitazione, ma senza il bisogno, per assecondarla, d’essere sopra le righe, senza ricorrere a questo o quell’artificio. Pure Eva Mei (Vitellia) e Giuseppe Filianoti (Tito) dispensano prove autorevoli. La prima risolve con facilità irrisoria la tessitura di “Non più di fiori vaghe catene” come gli arabeschi del terzetto “Vengo… aspettate…” e tratteggia il suo, diciamolo pure, antipatico personaggio con la giusta, partecipata distanza. Il secondo possiede quella nobiltà nella linea di canto, nel porgere la voce, a fronte di un’intonazione non sempre calibratissima, che lo fa adatto, come il ruolo impone, al tendere, all’indulgere al perdono, al non serbar rancore, e, quindi, a dispensare saggezze, al trattenersi nelle sfuriate, a contenere le rabbie: un “Che orror! Che tradimento!” non gridato ma non per questo meno incisivo lo dimostra come evidenziato a dovere è lo smarrito stupore di “Ma che giorno è mai questo?”. Il Publio di Marco Vinco è stentoreo, unicamente a disagio per un’eccessiva rigidità nel terzetto “Se al volto mai ti senti” come piuttosto rigida è Irina Dubrovskaya nonché vetrosa negli acuti. Completa positivamente il cast Annunziata Vestri (Annio). Sugli scudi, un capitano di lungo corso quale Gianluigi Gelmetti governa il tutto con raffinata, precisa musicalità e un occhio sempre vigile al palco. Infine, il coro, istruito da Paolo Vero, assai bene si destreggia offrendo il meglio, per solennità e amalgama, in “Che del ciel, che degli Dei” e nell’intervento del finale atto primo più che in “Serbate, oh Dei custodi” e nell’intervento del finale atto secondo.