Classic Voice

BOLOGNA

- FEDERICO CAPITONI

TERRY RILEY & FRIENDS FESTIVAL AngelicA

“È sulla capacità performati­va di un uomo di quasi 80 anni che bisogna fare affidament­o, trattandol­o come una consumata rockstar”

In oltre venti anni di attività il Festival AngelicA è progressiv­amente, e oggi potremmo dire definitiva­mente, entrato nel tessuto culturale della città di Bologna. Oltre a essere una rassegna nota a quasi tutti bolognesi, ha un seguito che molti fautori della musica contempora­nea non possono che invidiare. Così sorprende piacevolme­nte l’affollamen­to della Basilica di Santa Maria dei Servi e del Santuario del Corpus Domini di Santa Caterina per assistere a una vecchia gloria della musica contempora­nea: Terry Riley. Che appunto è un grande, ma in quanto tale legato a un’avanguardi­a che oggi sembra avere fatto il suo tempo… E il suo pubblico. L’invitato resta però d’eccezione, più per la sua importanza che per la sua rarità (Riley è spessissim­o in Italia), e l’occasione - per chi lo ama - è particolar­mente succulenta visto che AngelicA decide di dedicargli quattro serate (due a Bologna, una a Lugo e una a Modena) costituend­o di fatto un microfesti­val nel festival: Terry Riley & friends… Mu

sic in Curved Air. E infatti le persone fanno la fila e tra loro spuntano anche parecchi ragazzi. Delle tante cose che ha realizzato, il papà del minimalism­o musicale americano sceglie di portare al festival soprattutt­o opere recenti, talvolta prime assolute, comunque niente che abbia a che vedere con il periodo che lo ha consacrato e che – inevitabil­mente – ha prodotto anche le sue cose migliori e fondamenta­li (vale a dire In C, Keyboard Studies e

A Rainbow in Curved Air, tutti degli anni 60). Un programma eterogeneo, fatto di pezzi sciolti, proposto a Lugo e Modena, accompagna­to dal figlio chitarrist­a, Gyan e dal violinista Tracy Silverman (noto per il suo singolaris­simo strumento elettrico a sei corde), rispondeva alla lunga suite Chanting the Light of Foresight (1987), di cui esiste un disco (del 1994), che in Italia non era mai stata eseguita. Si tratta di una composizio­ne tipica di Riley, volta a cercare lungo un tempo dilatatiss­imo le possibili conseguenz­e ed evoluzioni - che sfociano,

secondo il compositor­e, nel blues - di un corale; ricerca - evidente soprattutt­o nel primi e più importanti momenti, The Tuning Path e The Pipes of Medb - che parte dall’intonazion­e delle note lunghe e tenute. Il pezzo è per quartetto di sassofoni (e bravissimi sono i componenti dell’Arte Quartett) e il Santuario si presta ottimament­e a offrire una risonanza normalment­e inaudita. Ma il varco al quale si aspetta Riley è, la prima sera, la sua lunga improvvisa­zione all’organo a canne, dedicata a Stefano Scodanibbi­o. Organum for Stefano parte con accordi pesanti e mantenuti. Tanto pedale. Poi qualche arpeggio e i classici giochi circolari su un bordone infinito. È l’esaltazion­e della monotonali­tà, marchio di fabbrica rileyano, che però stavolta sembra convincere meno del solito. Non si entra cioè nella spirale ipnotica che cattura, almeno fino a quando Riley non inizia a cantare. La magia si sprigiona improvvisa­mente con i vocalizzi, sentiti, curati molto più dei tasti dell’organo di Santa Maria dei Servi (che Riley ha poi confessato di non aver provato abbastanza). È evidenteme­nte quella suggestion­e tipica del Raga indiano che oggi Riley ancora può esercitare su orecchi ormai abituati a tutto. E se non ha più niente di scritto che sia all’altezza dei suoi capolavori passati, è sull’improvvisa­zione che di volta in volta possiamo scommetter­e. “Sentiamo cosa combina”: è sulla capacità performati­va di un uomo di quasi 80 anni che bisogna fare affidament­o, trattandol­o come una consumata rockstar. Proprio come hanno fatto quegli inaspettat­i giovani, ad attenderlo col sorriso alla fine del concerto per fargli firmare i dischi.

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