BOLOGNA
TERRY RILEY & FRIENDS FESTIVAL AngelicA
“È sulla capacità performativa di un uomo di quasi 80 anni che bisogna fare affidamento, trattandolo come una consumata rockstar”
In oltre venti anni di attività il Festival AngelicA è progressivamente, e oggi potremmo dire definitivamente, entrato nel tessuto culturale della città di Bologna. Oltre a essere una rassegna nota a quasi tutti bolognesi, ha un seguito che molti fautori della musica contemporanea non possono che invidiare. Così sorprende piacevolmente l’affollamento della Basilica di Santa Maria dei Servi e del Santuario del Corpus Domini di Santa Caterina per assistere a una vecchia gloria della musica contemporanea: Terry Riley. Che appunto è un grande, ma in quanto tale legato a un’avanguardia che oggi sembra avere fatto il suo tempo… E il suo pubblico. L’invitato resta però d’eccezione, più per la sua importanza che per la sua rarità (Riley è spessissimo in Italia), e l’occasione - per chi lo ama - è particolarmente succulenta visto che AngelicA decide di dedicargli quattro serate (due a Bologna, una a Lugo e una a Modena) costituendo di fatto un microfestival nel festival: Terry Riley & friends… Mu
sic in Curved Air. E infatti le persone fanno la fila e tra loro spuntano anche parecchi ragazzi. Delle tante cose che ha realizzato, il papà del minimalismo musicale americano sceglie di portare al festival soprattutto opere recenti, talvolta prime assolute, comunque niente che abbia a che vedere con il periodo che lo ha consacrato e che – inevitabilmente – ha prodotto anche le sue cose migliori e fondamentali (vale a dire In C, Keyboard Studies e
A Rainbow in Curved Air, tutti degli anni 60). Un programma eterogeneo, fatto di pezzi sciolti, proposto a Lugo e Modena, accompagnato dal figlio chitarrista, Gyan e dal violinista Tracy Silverman (noto per il suo singolarissimo strumento elettrico a sei corde), rispondeva alla lunga suite Chanting the Light of Foresight (1987), di cui esiste un disco (del 1994), che in Italia non era mai stata eseguita. Si tratta di una composizione tipica di Riley, volta a cercare lungo un tempo dilatatissimo le possibili conseguenze ed evoluzioni - che sfociano,
secondo il compositore, nel blues - di un corale; ricerca - evidente soprattutto nel primi e più importanti momenti, The Tuning Path e The Pipes of Medb - che parte dall’intonazione delle note lunghe e tenute. Il pezzo è per quartetto di sassofoni (e bravissimi sono i componenti dell’Arte Quartett) e il Santuario si presta ottimamente a offrire una risonanza normalmente inaudita. Ma il varco al quale si aspetta Riley è, la prima sera, la sua lunga improvvisazione all’organo a canne, dedicata a Stefano Scodanibbio. Organum for Stefano parte con accordi pesanti e mantenuti. Tanto pedale. Poi qualche arpeggio e i classici giochi circolari su un bordone infinito. È l’esaltazione della monotonalità, marchio di fabbrica rileyano, che però stavolta sembra convincere meno del solito. Non si entra cioè nella spirale ipnotica che cattura, almeno fino a quando Riley non inizia a cantare. La magia si sprigiona improvvisamente con i vocalizzi, sentiti, curati molto più dei tasti dell’organo di Santa Maria dei Servi (che Riley ha poi confessato di non aver provato abbastanza). È evidentemente quella suggestione tipica del Raga indiano che oggi Riley ancora può esercitare su orecchi ormai abituati a tutto. E se non ha più niente di scritto che sia all’altezza dei suoi capolavori passati, è sull’improvvisazione che di volta in volta possiamo scommettere. “Sentiamo cosa combina”: è sulla capacità performativa di un uomo di quasi 80 anni che bisogna fare affidamento, trattandolo come una consumata rockstar. Proprio come hanno fatto quegli inaspettati giovani, ad attenderlo col sorriso alla fine del concerto per fargli firmare i dischi.