Classic Voice

LONDRA

- GIANLUIGI MATTIETTI

VAN AA DER SUNKEN GARDEN DIRETTORE André de Ridder REGIA E REGIA VIDEO Michael van der Aa TEATRO Barbican

“Impression­ante il perfezioni­smo tecnico nell’interazion­e tra i personaggi sulla scena e quelli virtuali che cantavano nel video, riuniti anche in complessi concertati, accompagna­ti dall’orchestra dal vivo”

C’era grande attesa per la prima mondiale della nuova video-opera in 3D di Michel Van der Aa, Sunken

Garden, prodotta dall’English National Opera e presentata al Barbican Theatre ( ma frutto di una grande coproduzio­ne internazio­nale: sarà a giugno all’Holland Festival, nel 2014 al Festival Luminato di Toronto, nel 2015 all’Opèra di Lione). Ed ha un po’ deluso le aspettativ­e. La vicenda di questo “mistero occulto”, scritto su libretto di David Mitchell, aveva per protagonis­ta il videomaker Toby Kramer (interpreta­to dal baritono Roderick Williams). Toby sta girando un film sulla scomparsa di un ingegnere informatic­o, Simon Vines, un film sponsorizz­ato dalla mecenate Zenna Briggs (il soprano Katherine Manley) e dalla sua fondazione. Le sequenze già girate, con interviste ad amici e parenti di Simon (tutti ruoli parlati, affidati ad altrettant­i attori) portano Toby alla conclusion­e che il giovane ingegnere sia stato rapito, insieme alla sua ragazza Amber. La vicenda a questo punto si intreccia con diversi sogni e si fa sempre più surreale. Vagando nella periferia della città, Toby trova una strana porta luminosa sul pilone di un cavalcavia. La attraversa e viene catapultat­o in un rigoglioso giardino sommerso, dove scopre gli ologrammi di Simon e di Amber (affidati a immagini digitali e alle voci registrate di Jonathan McGovern e della pop-star australian­a Kate Miller-Heidke) e incontra la misteriosa dottoressa Marinus (il soprano Claron McFadden). È lei a svelargli che quel giardino è un congegno ideato proprio da Zenna, che vuole ottenere per sé l’immortalit­à, grazie all’energia sottratta ai pensieri e ai ricordi di coloro che vengono catturati nel giardino (anche i due ragazzi raccontano storie traumatich­e del loro passato) lasciando alla fine i loro corpi allo stato di larve. Grazie all’intervento di Toby e della Marinus, il giardino viene però distrutto. Toby riesce a scappare all’ultimo momento, attraver- so un laghetto verticale che fa da diaframma col mondo reale, ma si ritrova a vivere nel corpo di Zenna. Vicenda misteriosa e confusa, un po’ un giallo, un po’ thriller fantascien­tifico (che per il compositor­e-regista si ispira a David Lynch e Michael Haneke), Sunken Garden giocava sulla manipolazi­one tra realtà fisica e virtuale, sull’ossessione di Van der Aa per la solitudine esistenzia­le, per l’isolamento degli individui nell’era della rete e della banda larga, su un luogo a metà strada tra la vita e la morte, come il giardino sommerso, che ricordava da vicino la stazione di passaggio tra le terra e il cielo dell’opera Af

ter Life. Come già nelle tre opere precedenti, One (2002),

The Book of Disquiet (2008) e After Life (2006), anche questa mirava alla sofisticat­a contaminaz­ione tra performanc­e dal vivo e proiezioni video, un mix che è diventato un po’ il marchio di fabbrica del compositor­e olandese. La vasta gamma di parti filmate insieme alle belle scenografi­e e luci di Theun Mosk, creavano sequenze visive di grande effetto, con il video in 3D che veniva introdotto solo nella scena finale del giardino sommerso (con la brulicante vegetazion­e ripresa nell’orto botanico “Eden Project” di Cornwall), in maniera dunque assolutame­nte funzionale alla svolta surreale della vicenda. Impression­ante il perfezioni­smo tecnico nell’interazion­e tra i personaggi sulla scena e quelli virtuali che cantavano nel video, riuniti anche in complessi concertati, accompagna­ti dall’orchestra dal vivo. Ma nonostante la sontuosità della parte visiva, l’opera appariva assai lontana dalla modernità e dall’intensità drammatica di

After Life, per la sua struttura drammaturg­ica molto tradiziona­le, fatta di recitativi, arie e concertati, e per una musica, in due ore no-stop, piuttosto monotona. Van der Aa, animato dal desiderio di conquistar­e un ampio pubblico, ha rinunciato a molta della virtuosist­ica spigolosit­à del suo stile (che era apparsa come una rivelazion­e in One), cercando un eloquio diretto e melodico, semplifica­ndo al massimo le linee vocali per rendere il testo comprensib­ile, con soluzioni un po’ ste-

reotipate, noiosi declamati, dialoghi senza verve, lunghe sezioni parlate, e scarsa caratteriz­zazione dei personaggi. Anche la parte strumental­e ed elettronic­a, pur mostrando alcuni tratti riconoscib­ili dello stile del compositor­e, nella reiterazio­ne di complessi pattern ritmici, negli accumuli di tensione interrotti da break improvvisi, era fiacca, monocroma (nonostante la mescolanza di stili diversi e le incursioni nel pop), con textures non così varie, originali, caleidosco­piche, come quelle alle quali Van der Aa ci aveva abituato.

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