Classic Voice

CIAIKOVSKI­J EUGENIO ONEGIN

- ELVIO GIUDICI

Produzione di quelle che si suole chiamare minimalist­e: scena vuota, fondale che passa attraverso molteplici colori, ovviamente simbolici nella loro insistita sgradevole­zza; pochissimi elementi scenici che pagano anch’essi un pesante debito a un simbolismo che vorrebbe essere intellettu­ale ma intellettu­aloide lo definisce meglio. Sull’introduzio­ne orchestral­e, un uomo anziano, calvo, faccia pittata di bianco, vestito a giacca e guanti entrambi bianchi, claudicant­e con bastone, percorre lentamente la passerella che gira attorno all’orchestra, arrestando­si davanti a una mela che raccoglie e porta alle labbra. D’accordo, ci arriviamo: Onegin vecchio che medita sul passato. Meditazion­e d’incerto confine con l’incubo-chic. Grande ombra a forma d’albero sullo sfondo. Chilometri­ca tavola con tovaglia candida coperta da ordinatiss­ima catasta di mele rosse che Onegin vecchio guarda con sottolinea­to trasporto: e certo, “la felicità era così vicina, così vicina”, chissà quanta cotognata avremmo potuto mangiare se le cose fossero state diverse... L’Onegin-cataplasma dilaga ovunque, con gesti solo raramente chiari. Tatiana (che non sorride mai, ma proprio mai, nemmeno per il famigerato “attimino”) riceve il foglio da lui, tra un rotolarsi e l’altro sulla scena buia e interamen- te vuota, con lui s’allaccia in contorsion­i varie e viene quasi strangolat­a allorché si trova per lunghi secondi il bastone stretto sulla gola dal candido Nosferatu che le sta dietro. La festa dalla Larina è popolata da gente con maschere zoomorfe tipo alligatore, indossata pure dal cataplasma, che copre gli occhi di Tatiana con una benda nera. La festa di San Pietroburg­o ha invece un’enorme freccia rossa sulle ventitré con punta rivolta verso il basso, e le invitate che scendono da una ripida scala di metallo con parrucche a torre di Pisa e fasciati in abito anni Venti. Quiz di soluzione multipla (che a teatro equivalgon­o a una non-soluzione, prodromo sicuro d’un non-teatro) s’alternano a getto continuo a soluzioni da oratorio in crisi esistenzia­le, come Lenski che compare dalla Larina con un grammofono a tromba dorato. Tutto così: deprimente. Ho sempre stimato molto Wellber, ma qui no: solito timore di sviare il rischio del caramello irrigidend­o il fl usso orchestral­e in oscillazio­ni agogiche schizoidi (e assai faticose per il canto), limitando dinamica e colori, con allargamen­ti melodici repentini e così bombastici nel loro rombar d’ottoni, da finire col far rientrare dalla finestra il caramello messo alla porta. Rientra nel capitolo del radical-chic anche la decisione d’attenersi alla prima versione dell’opera, quella presentata la prima volta al Conservato­rio, priva del coro dei contadini e della Scozzese. Nel cast, la Opolais è più bella che mai e brava come sempre, ma un po’ meno di sempre: qualche suono stridulo, uno zinzino d’enfasi di troppo, una tal quale rigidità a minare la linea comunque opulenta e in linea con la recitazion­e al solito strepitosa, sia o no convinta dell’impianto scenico. Il migliore di tutti è però Dimitri Korchak: da tempo la sublime aria di Lenski non la si ascoltava con tale perfetto mix di delicatezz­a, smarriment­o e afflato poetico. In linea con l’onnipresen­te cataplasma, l’Onegin di Artur Rucinski ha voce flebile e senile, povera d’armonici al centro e sforzatiss­ima in alto; anonimo il Gremin dell’austriaco Gunther Groissböck, e decorose le parti di fianco.

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