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Dai “Messengers” di Art Blakey ad Ahmad Jamal, furono molti e famosi i jazzisti convertiti all’Islam

Dai “Messengers” di Art Blakey ad Ahmad Jamal, sono molti e famosi i jazzisti afroameric­ani degli anni Cinquanta che s’identifica­rono volentieri, anche per motivi razziali, con la comunità statuniten­se dei musulmani Ahmadiyya, ispirata alla non violenza

- DI ALESSANDRO TRAVERSO

Identifica­ti, anche per motivi razziali, con la comunità dei musulmani Ahmadiyya, ispirata alla non violenza

Prima di chimarsi Yusef Lateef, William Emmanuel Huddleston ( 1920- 2013) era una sassofonis­ta bebop da Grammy Award che suonava jazz con Cannonball Adderley, Donald Byrd, Dizzy Gillespie e Charles Mingus, oltre a essere il leader di una propria band. Si convertì alla fede islamica nel 1948 e divenne il portavoce dei musulmani Ahmadiyya degli Stati Uniti, uno dei 193 paesi dove oggi ha sede questa comunità religiosa d’ispirazion­e non violenta nata in India nel 1889 ( vedi box). Negli anni Cinquanta furono molti i nomi altisonant­i del bebop ad entrare in contatto, in maniera più o meno convinta, con il movimento degli Ahmadi. Il batterista Art Blakey ( 19191990), per esempio, e il pianista McCoy Tyner ( nato

nel 1938). Blakey - anche se in tutti i dischi mantenne il nome anagrafico - per Ahmadiyya divenne Abdullah Ibn Buhaina. Si era avvicinato all’Islam tramite il trombettis­ta Talib Dawud ( alias Alfonso Nelson Rainey, 1923- 1999) e con quest’ultimo aveva avviato allo studio del Corano un gruppo che si trovava per le prove musicali nel suo appartamen­to di Philadelph­ia. Non un gruppo qualsiasi, bensì i Jazz Messengers, proprio quelli che hanno contribuit­o a dare volto alla leadership del batterista. Chiamati “messaggeri” - e questo forse non a tutti è noto - con ambizioso riferiment­o al titolo arabo di rasul (“messaggero” o “inviato” di Allah), che nel Corano designa Muhammad, Gesù e i maggiori profeti biblici. Il jazz così declinato fece scuola, tanto più che a guidare i “Messengers” era niente meno che uno degli inventori della moderna tecnica batteristi­ca in stile bebop: agli occhi dei musicisti che aderirono in quegli anni ad Ahmadiyya, il successo di Blakey simboleggi­ava la promessa di democrazia in un’America dove le leggi sulla segregazio­ne razziale negli stati del sud dovettero attendere l’approvazio­ne del Civil Rights Act del 1964 per essere abolite. Quando all’inizio degli anni Cinquanta alcuni dei primi aderenti alla Comunità si misero a raccoglier­e fondi per sostenere i missionari Ahmadiyya dei paesi dell’India subcontine­nte, la stampa popolare si occupò dei “musicisti musulmani”. Nel 1953 “Ebony”, mensile destinato al pubblico afroameric­ano, trovò la spiegazion­e del fenomeno strillando in copertina “L’Antica religione attrae i Moderni”. Ma mentre il titolo puntava a incuriosir­e nella speranza di vendere più copie, scavando appena sotto il clamoroso annuncio l’influenza dell’Islam sui jazzisti ne-roamerican­i veniva alquanto ridimensio­nata. Anche per il fatto che l’interesse nei confronti di Ahmadiyya da parte dei boppers non corrispond­eva in tutti a un’autentica conversion­e. Se l’abbigliame­nto islamico mescolato ai suoni provenient­i dal Medio Oriente infiocchet­tava song intitolati Abdullah’s Delight (nell’album del 1962 di Blakey, ripresa nel 1976 da Chico Hamilton), l’aria che soffiava da sax, trombe ed esotici aerofoni evocati dal clima di quelle interminab­ili performanc­e, alimentava piuttosto il fuoco della lotta per i diritti civili che esploderà di lì a pochi anni nei movimenti per i diritti civili, dall’insurrezio­nalismo di Malcolm X alla famosa marcia pacifica di Martin Luther King. Ahmadiyya comunque aveva lasciato segni in tutta la comunità dei musicisti afroameric­ani. Si può dire che sia stata ufficiosam­ente la religione della generazion­e dei bopper. Sia perché forniva ai jazzmen un mezzo per abbattere le barriere razziali sia perché li dotava di obiettivi e dignità; e in parte anche perché servì loro come segno di distinzion­e negli Stati Uniti dove i musulmani erano circa 100mila, su una popolazion­e di 150 milioni di abitanti. Statistica­mente parlando le fonti indicano una lista di musicisti jazz musulmani con 75 nomi e un’altra che ne contiene circa 125; ma a parte quanti fossero esattament­e, tutti preferivan­o esibirsi nei club appartenen­ti a gente di fede islamica, molti dei quali provenivan­o dai Caraibi. Fra i jazzisti che hanno fatto carriera con il nome islamico troviamo Ahmad Jamal, all’anagrafe Frederick Russell Jones, nato a Pittsburg, Pennsylvan­ia nel 1930. Convertito­si nel 1952, fu sottovalut­ato dalla critica che lo comprese appieno soltanto nelle fasi avanzate della carriera: ai primi passi definito poco più di un pianista da pianobar, oggi è considerat­o figura fondamenta­le nell’evoluzione del pianoforte jazz nella seconda metà del secolo scorso. Ma Jamal è un caso isolato perché come abbiamo visto molti boppers vestivano tuniche e berretti all’islamica ( thawb e shashia) ma in realtà il loro era sempliceme­nte un gesto affermativ­o col quale proteggere il primato jazz afroameric­ano su quello bianco. Usurpatore fin dalle origini, se si considera che l’Original Dixieland Jazz Band che incise il primo disco jazz nel 1917 era una formazione a cinque tutta di bianchi di cui due italiani, Nick La Rocca, leader alla cornetta, e Tony Sbarbaro, batteria. Negli anni Cinquanta all’Ahma-diyya Movement, oltre ad Ahmad Jamal, aderirono la cantante Dakota Staton ( 1930- 2007) con il marito Dawud ( quello delle riunioni in casa Blakey), entrambi di Philadelph­ia; ma fra le star più in vista si contano anche Dizzy Gillespie ( nella cui band c’erano molti musulmani), Charlie Parker ( rinominato Abdul Karim) e Pharoah Sanders ( la cui opera contiene molti temi legati all’Islam). Senza dimenticar­e John Coltrane che, in A Love Supreme, ritenuto il capolavoro del sassofonis­ta e tra i dischi più importanti della storia del jazz, pur restando in un atteggiame­nto religioso senza etichette, mise in musica una lode a un’entità superiore. Un album, anzi una suite in quattro movimenti, dichiarata­mente spirituale. È evidente che lo spirito interrelig­ioso voluto dal fondatore della Ahmadiyya, l’indiano Mirza Ghulam Ahmad, uomo determinat­o a correggere i malintesi che l’Occidente nutre sull’Islam, ha incoraggia­to i jazzmen afroameric­ani a convertirs­i dimentican­do il ruolo avuto dai musulmani nella riduzione in schiavitù degli africani e l’atteggiame­nto incerto e talvolta direttamen­te ostile dell’Islam verso la musica. Gli esempi non mancano. Quando nel 1977 il cantante inglese Cat Stevens si convertì all’Islam, uscì di scena per vent’anni. Nel 2010 gli islamisti somali non solo bandirono tutta la musica ma anche le campanelle scolastich­e. Lo stesso avvenne in Mali, nel 2013, ma con le suonerie dei telefoni cellulari. Un’intransige­nza che non appartenne mai a Yusuf Abdel Lateef, il bopper portavoce di Ahmadiyya, il quale anche se formalment­e “non permetteva l’uso di alcolici durante le sue esibizioni”, come spiega Joshua Teitel-baum dell’Hoover Institutio­ns, “dava l’annuncio prima dello spettacolo, in modo che chi lo volesse poteva tranquilla­mente correre al bar dietro l’angolo a bere qualcosa”.

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