FACCIO AMLETO
DIRETTORE Paolo Carignani ORCHESTRA Wiener Symphoniker REGIA Olivier Tambosi
TEATRO Festspielhaus
“Dal grand opéra derivava anche quel volersi misurare con i grandi capolavori letterari, senza sfigurarli con le esigenze dell’opera tradizionale italiana. Ma forse la versione del 1871, utilizzata a Bregenz, ha ridimensionato la componente scapigliata dell’opera”
La notizia non è né scontata né frequente: un’opera sconosciuta di uno sconosciuto autore dell’Ottocento italiano ha dimostrato di avere tutte le qualità per entrare con decisione nel repertorio corrente. Si tratta dell’Amleto di Franco Faccio, che il Festival di Bregenz ha inserito nella stagione 2016, facendola conoscere sia alle migliaia di spettatori che affollano quel festival, sia alla grande platea della televisione. Questa “notizia” è, naturalmente, soprattutto un auspicio, basato però sulla constatazione di alcune condizioni davvero favorevoli, che sono, sostanzialmente, la notevole qualità dell’opera e la persino inconsueta cura con cui la si è fatta conoscere. È stato, infatti, un recupero compiuto con una convinzione che non è frequente in quei Festival che talvolta si pongono il problema della scoperta e del nuovo, ma che spesso dedicano le maggiori risorse ( finanziarie e creative) al più confortevole repertorio corrente
Per l’Amleto, allestito nel Festspielhaus - cioè fortunatamente nel teatro e non nella suggestiva ma acusticamente precaria piattaforma sul lago - sono stati mobilitati mezzi scenici di tutto rispetto, sotto la regia di Olivier Tambosi ( notevoli, in particolare, le luci di Manfred Voss), un cast quasi interamente di grande livello in cui primeggiava l’Amleto del tenore Pavel Cernoch, oltre che – come è usuale a Bregenz – un’orchestra della qualità dei Wiener Symphoniker e del Coro Filarmonico di Praga. Autorevole ed efficiente il direttore d’orchestra Paolo Carignani. Una buona esecuzione è di regola il viatico indispensabile per un’opera nuova o “come nuova”, qual è il nostro caso. Vale la pena ricordarlo anche perché la scomparsa dalle scene per quasi un secolo e mezzo dell’Amleto di Faccio la si deve proprio all’incredibile vicenda della rappresentazione scaligera del febbraio 1871, la seconda dopo il successo della prima al Carlo Felice di Genova nel 1865. Il grande tenore Mario Tiberini, nelle vesti del protagonista, era praticamente senza voce, tanto da far dire che l’Amleto era stato rappresentato senza Amleto. Non fu proprio un fiasco, perché il pubblico apprezzò tutte le parti in cui non compariva Amleto, ma il risultato fu così imbarazzante da spingere Faccio – che per l’occasione era stato anche il direttore d’orchestra – a mettere quest’opera definitivamente nel cassetto. Non è stato il caso, a Bregenz, del tenore Pavel Cernoch, che ha sostenuto gagliardamente una parte estremamente impegnativa sia per la quasi costante presenza durante i quattro atti, sia per una scrittura continuamente tesa su tutti i registri, a gara con una scrittura sinfonica di grande spessore. Questo ha garantito la buona riuscita – acclamata dal pubblico e dalla critica – della riesumazione.
Ma proprio l’ottima prestazione di questo tenore e l’energia sinfonica fornita dalla direzione di Carignani portano - a mio parere - a qualche riflessione ulteriore. Franco Faccio è apparso, così eseguito, come un convinto “verdiano”, come lo saranno - ma, si noti bene, negli anni successivi - il Marchetti di Ruy Blas, il Gomes di Guarany e soprattutto il Ponchielli di Gioconda. Diciamo anche che, quando l’opera fu concepita, negli anni precedenti il 1865, i modelli verdiani più avanzati avrebbero potuto essere il rifacimento del Macbeth per Parigi e la Forza del destino per Pietroburgo. In realtà l’ambiente “scapigliato” milanese prima del 1865 si esprimeva - attraverso la penna di Boito, di cui Faccio fu intimo sodale - a favore dei Vespri siciliani e di Un ballo in maschera ( le cui riprese trionfavano alla Scala
all’inizio degli anni Sessanta assieme al Faust di Gounod), accanto agli Ugonotti di Meyerbeer e al Guglielmo Tell di Rossini. Il mondo nel quale si inseriva Amleto - così come il Mefistofele di Boito nella prima versione del 1868 - era quindi quello del grand opéra francese nel momento in cui veniva a fecondare la tradizione operistica italiana. Da qui la ricchezza spettacolare dell’impianto drammaturgico, il grande ruolo dell’orchestra, la vocalità che anticipa, semmai, anziché seguire, le scelte verdiane di Don Carlo e Aida.
Dal grand opéra derivava anche quel volersi misurare con i capolavori letterari, senza sfigurarli con le esigenze dell’opera tradizionale italiana. Boito, che pretenderà di musicare anche il secondo Faust, dalle complesse e profonde significazioni filosofiche, apprestava il libretto dell’Amleto nel modo più rispettoso dell’originale shakespeariano, eliminando forme chiuse e assetti metrici convenzionali, e apprestando plurime occasioni per salvaguardare, dell’originale, la componente sarcastica e beffarda, tanto cara a chi – come Boito e Faccio – ammirava gli scrittori “maledetti” alla Baudelaire o alla Edgar Allan Poe.
Forse la versione del 1871, utilizzata a Bregenz, ha ridimensionato la componente scapigliata dell’opera. Forse un’esecuzione meno passionale e più “amletica”, avrebbe permesso di cogliere anche questi valori aggiunti. È su questo che speriamo vogliano lavorare tutti coloro che vorranno far tesoro di questo notevole recupero.