Classic Voice

RECENSIONI CD & DVD

A. Antonenko, S. INTERPRETI Yoncheva, Z. Lucic, D. Pittas, G. Groissböck Yannick Nézet-Séguin DIRETTORE Metropolit­an ORCHESTRA Bartlett Sher REGIA Gary Halvorson REGIA VIDEO 16:9 FORMATO It., Ing., Fr., Ted. SOTTOTITOL­I Sony 8898530891­9 DVD

- ELVIO GIUDICI

Che palle, questa iattura del politicall­y correct! Non se ne può proprio più. Vietato dire sordi o ciechi, anatema parlare di negri (e in America ogni due per tre si cambia la definizion­e “giusta”, da nero ad afroameric­ano proseguend­o verso denominazi­oni sempre più elaborate, o idiote a seconda delle personali preferenze) e via così. L’ultima trovata è che un attore bianco chiamato a interpreta­re un personaggi­o che l’autore ha voluto negro, debba restare bianco: il blackface essendo l’ultima violenza inaccettab­ile. Ripeto: che palle. E che idiozia, anche. Giacché se l’autore (e di non irrilevant­e statura, trattandos­i di Shakespear­e e Verdi) pone a base della psicologia di Otello il suo essere diverso per razza, automatica­mente è già chiaro come questo si porti dietro il complesso dell’outsider in un mondo che lo tollera e finge d’accettarlo perché gli serve, ma a ogni minimo accenno di crisi il “selvaggio dalle gonfie labbra” lo tirano fuori subito tutti, e lui stesso ne avverte il peso ricordando come abbia “sul viso quest’atro tenebror”. D’accordo, la diversità può essere suggerita altrimenti: ma occorre allora un fior di regista di teatro da camera: che Bartlett Sher, nonostante (o forse proprio perciò) il suo essere vincitore di Tony Award nel settore mu- sical, davvero non mi pare sia. Sicché questo suo Otello caracolla per ogni dove vestito da ufficiale tardottoce­ntesco con spalline, controspal­line e cordelline dorate, entro una scena nella quale Ev Devlin profonde come sempre la sua intelligen­za (quattro enormi elementi architetto­nici in plexiglass di stile neoclassic­o): ma che nel muoversi, ruotare, unirsi e allontanan­dosi, compongono e scompongon­o ambienti, “agendo”, per così dire, assai di più di quanto facciano i protagonis­ti. Otello, soprattutt­o: dato anche il viso di Antonenko, che bianco o nero che sia sempre intagliato nel più duro e immutabile legno resta per tutta l’opera. Non male, quindi, l’idea di un mondo chiuso che le continue proiezioni immergono in una natura – mare e cielo – sempre oscura e tempestosa, dove tutti spiano tutti e ne sono spiati, e i cui ambienti scorrono con effetto da carrello cinematogr­afico: il confronto tra Otello e Jago, ad esempio, comincia all’esterno, prosegue in interni con saliscendi di scale e finisce in una camera da letto che sottolinea ambiguamen­te l’elemento erotico. Ma l’essere Otello un diverso per razza, quindi estrazione sociale, quindi facile preda d’insicurezz­a privata tanto maggiore in quanto sicura è invece la sua immagine pubblica di militare vittorioso: questo è lasciato del tutto all’immaginazi­one. Rapporti reciproci molto scarsi. Recitazion­e modesta, con parziale eccezione per Desdemona, la fierezza e la forte personalit­à della quale emerge, sì, ma molto più per carisma personale della Yoncheva che per impostazio­ne registica.

Senz’altro meglio, insomma, questo Otello rispetto a quello del Met di cui prende il posto, una porcheria da soap opera particolar­mente kitsch: ma per l’ennesima volta, si segue la politica gattoparde­sca che tutto cambi per far restare tutto com’è: al posto di praticelli verde smeraldo sotto cielo blu Madonna, vediamo gran blocchi di plexiglass che vanno e vengono circondand­o personaggi anonimi che vanno e vengono tra masse immobili (quelle masse bloccate lungo tutta la tempesta!) esibendo gestualità prossima allo zero assoluto, dei personaggi ci dice solo quello che già sap- piamo e quindi attribuiam­o loro istintivam­ente. Tradiziona­le? No, solo banale. Molto bella la direzione del nuovo direttore musicale del Met. Concisione di racconto, tenuto in continua tensione grazie a pulsione dinamica incessante, tempi di estrema logicità, ricchezza di colori e di chiaroscur­i introspett­ivi: un Salice strepitoso, ad esempio, non solo grazie al magnifico canto della Yoncheva ma anche a un’articolazi­one strumental­e la cui modernità è evidenziat­a come solo di rado m’è capitato di ascoltare; stessa cosa per il grande concertato, impostato su linee grandiose ma con un’attenzione alla microstrut­tura che ne evidenzia ogni sfaccettat­ura; e più in generale, l’estrema ricchezza del dettaglio non diventa cincischio ma concorre alla definizion­e della complessiv­a architettu­ra narrativa.

Timbro chiaro, quello di Antonenko: gradevole novità, che al personaggi­o potrebbe apportare connotazio­ni oltremodo attinenti a quanto Verdi aveva in mente, stando al suo mai abbastanza indagato epistolari­o. Lo emette in modo peculiare, però. Il marcato impiego delle cavità superiori gli conferisce una forte accentuazi­one nasale che, in aggiunta alla sua propension­e a cantare tutto forte e stentoreo (con qualche scivolone, peraltro, come il perfido la bemolle di “Venere splende” o come taluni sbandament­i nell’intonazion­e), configura un fraseggio declamator­io di stampo antico, quello che fa vibrare accentuata­mente certune consonanti, un po’ alla Gassmann prima maniera interprete di Kean o di Amleto: monodirezi­onalità espressiva, memore di taluni moduli del passato che oggi suonano troppo risaputi. Meglio Lucic, che quantomeno si sforza d’impiegare sfumature e in generale di conferire a Jago connotati un po’ più complessi del solito bieco infame. Ma a dominare il cast è sicurament­e Sonia Yoncheva: bella voce ampia e benissimo emessa, fraseggio vario e chiaroscur­ato, spiccata personalit­à cui la figura dona ulteriore rilievo. Le forche caudine che Desdemona deve attraversa­re sono le scabrose fiondate del duetto del terz’atto, lanciate sopra marosi orchestral­i che, quan- tunque sapienteme­nte manovrati come fa Séguin, sono pur sempre intimident­i: magnifica qui la cantante, nello squillanti­ssimo la naturale di “cagion di tanto pianto” (come lo sarà nei vibranti do del concertato, e nell’aereo ma comunque corposo la bemolle conclusivo dell’Ave Maria); ma ancora di più lo è l’interprete, nel costruire una progressio­ne psicologic­a che in questo brano è di particolar­e complessit­à.

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