RICORRENZE
Cent’anni fa, con la Rivoluzione, la cultura sovietica si apriva alle più audaci sperimentazioni musicali. Un entusiasmo modernista che ambiva a far crescere culturalmente le masse. Poi arrivò Stalin; e fu subito diktat di ciò che si può o non si può fare
Cent’anni fa la Rivoluzione sovietica: inizialmente aperta alle più audaci sperimentazioni musicali Poi arrivò Stalin; e fu subito diktat di ciò che si può o non si può fare in musica. In nome di un’arte proletaria “per tutti”
Anatolj Lunaciarskij fu commissario del dipartimento della cultura sovietica nei primi anni dell’Urss. Fu uno scrittore prolifico: lasciò più di 500 saggi sui più diversi aspetti della politica, della cultura e anche della musica di quegli anni. Gli dobbiamo una sintesi fulminante di come la musica fosse l’anima della rivoluzione: “Skriabin forniva l’entusiasmo visionario indispensabile a chi vuole cambiare il mondo; Tane’ev forniva l’altrettanto indispensabile rigore costruttivo”. I musicisti a cui Lunaciarskij si riferiva intorno al 1920 erano entrambi defunti nel 1915, e la loro citazione assume il valore di un programma politico rivolto ad accettare, dal magnifico passato della cultura russa, entrambe le anime della tradizione musicale, come base per collocarvi - altrettanto essenziali - le ricerche moderniste dei ventenni, aperti all’Europa e ai recenti sommovimenti dei linguaggi. Non per niente Lunaciarskij scelse, già nel 1919, di avvalersi, come capo della divisione musicale, di Arthur Lourié, cioè un compositore “futurista”, sperimentatore di tecniche seriali para-dodecafoniche e di eversive tipologie di scrittura.
La Russia doveva ancora superare la tragedia dei milioni di caduti nella guerra mondiale, e affrontare la più atroce delle carestie e una guerra civile scatenata dai controrivoluzionari sorretti dalle potenze capitaliste. Eppure, dopo il periodo rivoluzionario iniziato nel febbraio 1917 e deflagrato nel successivo ottobre, l’entusiasmo collettivo, rivolto alla costruzione di un mondo liberato dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dalla schiavitù dell’“oro”, fu tale da accogliere gioiosamente ogni espressione artistica, senza preclusioni verso il passato remoto e prossimo, o verso le grandi opere di altri paesi, o verso le sperimentazioni, anche le più radicali.
Ciò non significava un rapporto facile degli artisti con il partito: Lenin nel 1922 poteva addirittura decidere di chiudere - per quanto temporaneamente - il Teatro Bol’šoi di Mosca “vista l’insignificanza del suo valore artistico e l’enorme spesa che rappresenta”. Ma vigeva, in quegli anni, un clima non totalitario; cioè una residua capacità di distinguere tra potere politico e scelta artistica che andrà ben presto disperdendosi, soprattutto dopo la morte di Lenin nel 1924. Eloquente è un intervento di Trockij sull’argomento: “Nel campo delle arti il partito non deve sentirsi autorizzato a comandare. Il partito deve proteggerlo ed aiutarlo, ma non è autorizzato a giudicare se non indirettamente. Cioè può e deve concedere una maggiore fiducia a quei gruppi artistici che fanno ogni sforzo sincero per avvicinarsi alla rivoluzione e quindi per contribuire alla componente artistica della rivoluzione. Ma nell’ambito dell’autodecisione artistica, deve dar loro la libertà assoluta”. L’evoluzione autoritaria e totalitaria dell’Urss mostrerà come le aporie di questa dichiarazione, apparentemente “liberale”, apriranno la strada a soluzioni sostanzialmente liberticide: chi giudicherà quali sono gli sforzi “sinceri” per contribuire alla rivoluzione? E chi deciderà, di conseguenza di aiutare o ostacolare gruppi di artisti o singoli individui?
In sostanziale assenza di una direttiva politica da parte del partito, sotto la colta e illuminata gestione di Lunaciarskij poterono quindi convivere orientamenti radicalmente diversi nel mondo musicale del nuovo Stato comunista. Ci fu spazio per i conservatori, soprattutto nei Conservatori di musica, di Mosca e di Pietrogrado.
Nei teatri e nelle sale da concerto, ora affidate a cooperative dipendenti in tutto dalle sovvenzioni dello Stato, ci fu maggiore spazio per novità moderne. Si rimane meravigliati, ad esempio, come a Leningrado la Filarmonica appena nata (1924) programmasse sinfonie di Mahler e i Gurrelieder di Schoenberg; e il Teatro Mariinskij allestisse il Wozzeck di Berg e Der ferne Klang di Schreker. Non costituiva problema che Stra-
vinskij non fosse tornato in Russia dopo la rivoluzione: Lourié, il commissario alla musica, era un entusiasta ammiratore della sua musica che era ampiamente programmata. All’ombra di Stravinskij si svolse anche la carriera di compositore e di pianista di Sergej Prokof’ev, a cui non vennero poste restrizioni perché svolgesse lunghe tournées all’estero, con altalenanti ritorni in Russia. Vennero infine programmate tournées di tanti compositori e dei maggiori solisti attraverso la rete dei nuovi teatri di cui si stavano dotando tante altre città, oltre Mosca e Pietrogrado, nell’immenso territorio della nuova Russia.
Come in tanti paesi europei, anche la Russia nel 1923 si dotò di un’Associazione per la musica contemporanea (Asm) che promosse la partecipazione dei giovani musicisti russi ai Festival europei di quegli anni, in analogia con quanto era avvenuto - ad esempio - con la Simm di Casella nel 1917. Questo quadro della vita musicale negli anni di Lenin mostra quindi tratti esteriori di forte somiglianza con quanto poteva allora avvenire in Germania o in Francia. Ma la differenza era sostanziale: al cuore della politica culturale di Lunaciarskij e Lourié si collocava il destinatario dell’attività culturale della nuova Russia (Urss dal 1924). Nelle città più importanti si era sviluppata, negli anni di Nicola II e del governo di Sergej Vitte, una borghesia industriale, commerciale e finanziaria di una certa vastità, dove, in un clima illuminato e colto, la pratica di uno strumento o del canto era divenuta frequente. Gli stessi protagonisti della rivoluzione - i “quadri” del partito e i commissari del popolo - potevano vantare un alto livello culturale, non solo in ambito filosofico ed economico. Su queste basi la rivoluzione si poneva l’obiettivo di educare alla cultura e alla musica le nuove masse proletarie, se non addirittura la nascente borghesia agraria, creata dalla Nuova Politica Economica (Nep) voluta da Lenin nel 1921 con la parziale reintroduzione della proprietà privata. Nel 1987, praticamente nel momento della morte dell’Urss, Luigi Pestalozza relazionava su un suo viaggio (La musica nell’Urss: cronaca di un viaggio), narrandoci l’immensa portata, quantitativa e qualitativa, delle Case della cultura sparse per ogni dove, spesso a corredo di poli produttivi industriali. Nonostante i rivolgimenti della storia, le basi di quella rigenerazione della cultura in chiave
proletaria furono sempre quelle, fin dal 1918-19, quando ancora imperversavano la carestia e la guerra civile. Questa politica, però, generò una serie di contraddizioni che riflettono a loro volta quanto fosse travagliato e critico il cammino delle scelte artistiche in uno Stato sempre più burocratizzato e totalitario. La prima contraddizione, mai sanata, fu la scissione tra i musicisti professionalmente riconosciuti (corredati, come minimo, di un diploma superiore di conservatorio) e l’infinito numero degli addetti all’educazione musicale del proletariato. Scisse dalle case della cultura e dai cori, dalle orchestre e dalle bande che vi operavano, già alla morte di Lenin aveva acquisito grande potere l’Unione dei compositori. Si trattava di un’organizzazione con evidenti aspetti corporativi, che agì sempre di più nella direzione di un ceto privilegiato, sia economicamente, sia come status sociale. Riaffiorava cioè, nel momento della fondazione dell’Urss nel 1924 e in contraddizione con i proclamati programmi proletari, un’atavica tendenza dell’intellettualità russa: quella di considerarsi intellighenzia, cioè parte distinta ed eletta nel corpo sociale.
Fu questo soprattutto l’elemento di debolezza che fece cadere, dopo la morte di Lenin, il magico clima che aveva caratterizzato i primi anni della rivoluzione; un clima di entusiasmo palingenetico - governato da grandi uomini d’azione, sì, ma colti e di specchiata moralità, come Lenin e Trockij in cui poterono convivere tendenze altrimenti irriducibili, come la salvaguardia della tradizione e l’attiva partecipazione alle avanguardie più radicali del Novecento, lo sforzo per l’educazione del proletariato e il raggiungimento di standard artistici competitivi internazionalmente. Le avvisaglie della crisi si concretizzarono già nel 1923 con la nascita di un movimento (la Rapm) che cominciò ad agitare il vessillo dell’“arte proletaria”, contrapposta a quella individualistico-piccolo-borghese.
Da qui cominciarono a circolare i sospetti su qualsiasi musica che non fosse quella facilmente comprensibile dalle masse, il che portò tante case della cultura a dare spazio solo alla musica corale su melodie d’impronta popolare.
Ma la trasformazione che portò dal leninismo allo stalinismo riguardò il ruolo del partito. Ancora nel Fiodor Fiodorovsky, scene per “Carmen” (Bolshoi 1922) 1925 il Comitato centrale si esprimeva favorevolmente “alla libera rivalità dei diversi gruppi e delle diverse tendenze […]. Il partito non può concepire monopoli di alcun genere, nemmeno quelli di ideologia proletaria”. Nel 1932 tutto era cambiato: morti, emigrati, sottomessi tutti i protagonisti dell’era leninista, il partito assumeva il controllo ideologico di ciò che si può e di ciò che non si può fare in musica. Il mostro da combattere è il “formalismo”(vecchio vessillo della Rapm, che nessuno ha mai capito cosa fosse), la linea da seguire è quella del “realismo socialista”, veicolo per ogni ignobile opera di pura e semplice propaganda. La nuova borghesia costituita dai burocrati del partito ha vinto la sua storica guerra per il potere all’ombra sanguinaria di Stalin.