IL DIRETTORE
Da Zurigo a New York: con queste e altre direzioni prestigiose Fabio Luisi è al vertice del mondo musicale internazionale. E ora si prepara a sostituire Mehta all’Opera di Firenze: si parte con “La Favorite” e la Trilogia popolare. Eppure non ama la retor
Da Zurigo a New York: con questi e altre direzioni prestigiose Fabio Luisi è al vertice del mondo musicale E ora si prepara a sostituire Mehta all’Opera di Firenze. Eppure non ama la retorica del supermaestro da podio
Laico e pragmatico. Superprofessionista. Fabio Luisi, il maestro che “non ha problemi di ego” (scrisse alla nomina il “New York Times”), il direttore d’orchestra più antidivo dei nostri giorni, che per hobby è maestro profumiere, è tra i protagonisti della vita musicale internazionale. Direttore musicale all’Opera di Zurigo e principale sia al Metropolitan di New York sia dell’Orchestra nazionale sinfonica danese a partire dalla stagione 2017-2018. La stessa in cui prenderà ufficialmente la direzione musicale del Maggio Musicale Fiorentino - Zubin Mehta rimane come “direttore principale emerito a vita” - dove da qualche settimana figura come consulente artistico del sovrintendente e il 25 febbraio dirigerà un suggestivo impaginato ben(in)augurale. E nel futuro sono in cantiere titoli operistici altrettanto eloquenti: La
favorite di Donizetti, seguito dalla Trilogia verdiana mentre nel nascituro Maggio 2019, il primo “suo” a tutti gli effetti, dedicato al Novecento, Luisi dovrebbe dirigere Lulu di Berg (per curiosa coincidenza l’edizione in dvd di Wozzeck
diretta a Zurigo con la regia di Andreas Homoki ha appena ottenuto l’International Classical Music Awards-Icma, per la categoria video performance).
Non ancora sessantenne, dal luglio 2015 Luisi è anche direttore musicale del Festival della Valle d’Itria dov’è di casa dal 1980. Lì di fatto è iniziata la sua vita professionale. E non sul podio, subito.
“In effetti prima di incontrare Luciana Serra e Leyla Gencer non ci avevo nemmeno pensato. Grazie a loro, non le ringrazierò mai abbastanza, ho iniziato a lavorare sull’opera a Martina; come pianista preparatore poi come maestro sostituto di Alberto Zedda. Allora il festival era improvvisato. Ci lavoravano poche persone e spesso in condizioni non ideali - ricordo prove di scena in un capannone fuori città - ma c’era la presenza di Zedda e di Rodolfo Celletti, le loro idee chiarissime sul senso e significato d’una programmazione di quel genere. Il loro carisma tutt’altro che conciliante al momento di lavorare senza distrazioni di obiettivi, bilanciava le carenze organizzative con concentrazione sulla qualità artistica e l’innovazione stilistico-esecutiva”.
Fra diavolo (1984) fu la prima “uscita” operistica ufficiale. Lei cantò anche una piccola parte di tenore: e Celletti su quella strada non l’incoraggiò, se non ricordo male...
“Produzione indimenticabile, posso elencare ancora i cantanti uno a uno, e con la regia di Lamberto Puggelli, altro straordinario uomo di teatro e modello di professionismo”.
Cos’è rimasto di “quel” festival?
“Di certo nel periodo Celletti non ha lavorato nessuno se non per ragioni artistiche, e per scelta personale dei direttori. Oggi il festival ha un’altra organizzazione: è strutturato con più avvedutezza. Ha un nome da difendere e non da far conoscere. Ma non è cambiata l’impostazione base che si fonda sulla passione di chi ci lavora, spesso sul volontariato, e sulla disponibilità degli artisti che a Martina vengono per motivazione autentiche, e non per il cachet. Altrimenti un festival con così poche risorse sarebbe scomparso da anni”.
Che cos’ha imparato a Martina Franca?
“Tutto quel che so lo devo a Martina, dove sono tornato per una dozzina d’anni, e a Graz dove ho lavorato in seguito”.
Tutto, che cosa significa esattamente?
“Della messa in scena di un’opera so come funziona in ogni dettaglio perché non c’è una mansione musicale e scenica che non abbia esercitato: strumentista in orchestra, pianista di e ‘in’ palcoscenico - in Mahagonny,a
Graz - assistente musicale e di regia, direttore di scena, maestro alle luci e di quinta, cantante”.
Per questo la descrivono come un concertatore molto comprensivo?
“Non sono comprensivo o quieto di carattere: sono tranquillo perché conosco i problemi, alcuni li prevedo, ma soprattutto sono spontaneamente dalla parte di chi in quel momento sta cercando la soluzione”.
A Graz approdò al seguito di Milan Horvat.
“L’avevo conosciuto a Genova dove era regolarmente invitato per le opere wagneriane. Già diplomato in pianoforte avevo voglia di verificare sul serio la possibilità di dirigere: andai a Graz perché lì Horvat teneva i suoi corsi”.
Siamo parlando di un maestro di vecchia scuola?
“Vecchia?, vecchissima direi ma fondamentale. Legata nel repertorio e nel gusto interpretativo alla grande scuola tardoromantica tedesca ma anche molto attento a un approccio analitico alle partiture”.
Com’è stato l’impatto con quel repertorio lontano dal belcanto?
“Avendo deciso di andare a Graz, m’era anche messo a imparare il tedesco: m’è servito moltissimo per avvicinarmi a certi autori che non pensavo sarebbe diventati così vicini e frequentati. Avendo studiato con Aldo Ciccolini ero più attratto dal mondo francese. Amavo Roussel, Poulenc oltre a Satie e gli altri autori più noti”.
Il seguito fu soprattutto tedesco, invece.
“Prima di Dresda, agli inizi degli anni 90 ci fu l’esperienza decisiva alla Staatsoper Berlin. Ero giovane, ambizioso e non avevo paura di fare cose nuove. L’impatto con un vero teatro di repertorio fu faticoso ma bellissimo. La Staatsoper aveva 46 cantanti stabili, i pochi ospiti erano rumeni, bulgari o russi - il Muro era appena caduto, ma non ancora i canali culturali privilegiati. Si lavorava con un repertorio grande e poche prove. È stato il mio periodo di formazione più duro: ho imparato a lavorare concentrato, a mettere a frutto le conoscenze e padronanze musicali dei colleghi, a fidarmi della mia esperienza ma appoggiandola a quella degli altri. Così m’è capitato di dirigere opere senza nessuna prova d’orchestra, anzi in quel modo - dopo un paio di incontri con i cantanti - ho debuttato Vespri siciliani e Racconti di Hoffmann. M’è capitato ancora con Traviata e Tosca a Vienna, ma non erano prime volte”.
Nessuna apprensione?
“Era il 1989, gli anni in cui Tosca l’avevano suonata più volte con Karajan, lì e a Salisburgo. Non c’erano certamente problemi di preparazione. Ba-
stava fidarsi reciprocamente perché la macchina esecutiva era garantita, e di livello unico”.
Ma senza una prova d’orchestra non era troppo rischioso?
“Certo, ma meglio così che con prove in numero insufficiente. Wolfgang Sawallisch mi ha raccontato le sue esperienze simili: ‘due prove ti fanno solo morire più lentamente’, diceva”.
A Dresda la situazione qual era?
“Occasione inaspettata - fui chiamato in sostituzione di Giuseppe Sinopoli ma contesto non molto diverso. Del resto se come Staatskapelle Dresda - con Gewandhaus di Lipsia - l’orchestra aveva facilitazioni, contatti (e incentivi per tenerli), col mondo musicale occidentale, la Semperoper viveva ancora nella logica del teatro di tradizione tedesca”.
Dove lei continua a suonare il pianoforte?
“Di solito lascio fare al maestro del teatro, ma se ho bisogno di precisione sul testo e sui dettagli preferisco suonarlo io. Anche se non ho più la ‘mano’ d’un tempo, credo di sapere meglio di altri come si deve leggere un’opera al pianoforte: suonando in funzione di ciò che si vuole ottenere e comunicare col gesto all’orchestra. Non necessariamente tutto (o solo) ciò che c’è sullo spartito”.
Al Metropolitan invece come funziona la “macchina” operistica?
“Ho trovato una situazione mista, simile a quella di Zurigo. Ci sono molti titoli in repertorio per i quali è previsto un numero di prove esiguo - oggi, tra i grandi teatri, solo a Vienna capita di andare in scena senza prove d’orchestra - e altri nuovi. Ovviamente, se ripresi qualche mese dopo - come accadrà con Don Giovanni che ho diretto da poco - avranno piani di lavoro ridottissimi”.
Qual è la forza dell’orchestra newyorkese?
“Tecnicamente il livello è subito affidabile. In Italia mi capita ancora di soffermarmi sulle note e sorvegliare la precisione. Al Metropolitan ci si può concentrare immediatamente su suono, dinamica, espressione: tutto è più rapido e di soddisfazione reciproca. Gli strumentisti sono molto attenti e collaborativi; con memoria e ‘attenzione’ musicale che rende fruttuosa - e impegnativa per noi - la prova. Ogni osservazione si fa una volta sola: rimane scolpita, e quindi dev’essere quella giusta. Quando ho diretto Lulu di Berg, che non era programmata da anni, predisposi un palinsesto di prove nutrito. L’ho semplificato dopo la prima prova: eravamo riusciti a suonare bene, già in lettura, tutto il primo atto in una sola seduta”.
Ci sono differenze nell’accompagnare rispetto alle orchestre europee?
“Nessuna. Anzi gli anni di James Levine hanno perfezionato la disciplina, e la capacità di respirare con naturalezza col palcoscenico e con le voci. Quel che Levine ha fatto al Metropolitan - con l’orchestra, con la ‘macchina’ del teatro e nell’ampliamento e consolidamento del repertorio - è un patrimonio di cui i musicisti sono consapevoli e orgogliosi”.
Oggi lei inizia il rapporto con l’Opera di Firenze. Dal teatro “di” Levine a quello “di” Mehta…
“Sono (state) due situazioni diverse. Levine ha svolto un ruolo ‘educativo’ impareggiabile nei confronti del repertorio italo-tedesco e del gusto dell’orchestra. Mehta aveva già a disposizione una grandissima orchestra d’opera; quella di Vittorio Gui e di Riccardo Muti. Ma in questi anni ne ha allargato e sprovincializzato il repertorio, cosa che non ebbe la possibilità di fare Muti che di esperienza allo-
ra ne aveva meno e che giustamente ‘usò’ il Maggio per ‘provarsi’ e per farlo rientrare al centro dell’esecuzione operistica italiana”.
Come pensa di impostare il suo lavoro con l’orchestra fiorentina?
“Sulle caratteristiche che mi hanno sempre interessato: l’articolazione e la dinamica. Vorrei sempre che si sentisse tutto ciò che è scritto. Non sono un fanatico del suono lussureggiante, lo preferisco bello e trasparente. Parto molto avvantaggiato dalla crescita costante e dallo stato ottimo che l’orchestra ha raggiunto con Mehta”.
E, in generale, come vede il suo ruolo al Maggio?
“Spero di impersonare, meglio: rappresentare, la qualità d’un teatro che vuole rimanere nel ruolo importante che la sua storia gli attribuisce. Il mio lavoro sarà soprattutto musicale, per il resto c’è un direttore artistico e un sovrintendente cui spettano le altre decisioni”.
Prima del concerto d’incoronazione a Firenze, torna a Milano con la Filarmonica della Scala. E con un programma decisamente orientato alla letteratura non italiana: Strauss e Liszt. Un caso o una scelta mirata?
“La Filarmonica della Scala è una delle quattro orchestre italiane-europee, non ha nulla da imparare. E ha caratteristiche particolarmente adatte a certi autori. Ad esempio eseguendo molto Strauss con i complessi tedeschi m’è sempre mancata quella brillantezza tipicamente italiana che il compositore fa trapelare ma che raramente si sente. A Milano e Firenze l’avrò. Sono sicuro che il Don Juan con i complessi scaligeri sarà meraviglioso e sorprendente”.
Negli ultimi anni ha anche collaborato spesso con l’Accademia scaligera. Come sono i professori d’orchestra italiani del futuro?
“Preparati bene. A loro non manca nulla, forse qualche occasione professionale in più. Lavorare con i ragazzi dell’Accademia scaligera, con l’orchestra come con i cantanti, mi ha arricchito molto”.
E della situazione dei teatri italiani, cosa pensa?
“Ai nostri teatri ci vorrebbe più sostanza strutturale e organizzativa, per il resto rimangono tra i migliori del mondo. Il vero problema è la mancanza di una legislazione che li tuteli, li controlli ma anche li sostenga con regolarità e giustizia. Occorre una considerazione pubblica che non sia mortificante: che consideri (e conteggi di conseguenza) bene e non merce ciò che producono”.
Imitare altri teatri internazionali, ad esempio tornare al “repertorio”, può essere utile?
“Importare ricette è sempre problematico. Ogni situazione deve essere affrontata partendo dalla singola realtà. E magari cominciando da quei teatri dove il rischio non è artistico, ma la sopravvivenza”.
Pensa al Carlo Felice, il teatro della sua città?
“Un caso limite e drammatico. Ha ottenuto finanziamenti, sono stati assegnati e deliberati più di un anno fa ma non ancora conferiti”.
Il contrario di Zurigo?
“Quello è un teatro ragionevolmente ricco; lo è da una ventina d’anni. Riceve il 40% dalla regione, il 30 dai privati e il restante dagli incassi. Ha una programmazione “mista” con una parte di stagione a repertorio ma anche molte nuove produzioni, quindi ha un parco cantanti di casa ma anche ospiti eccellenti”.
Alla fine della carrellata sulla sua evoluzione professionale possiamo provare a fare un bilancio. Quali errori non rifarebbe?
“Non è facile dirlo: ho sempre considerato ogni passo, anche sbagliato, un divenire. Certo un po’ rimpiango che quando ho cominciato a lavorare con assiduità negli anni Novanta, non sia riuscito a togliermi da una sorta di germanocentricità professionale. Avrei voluto dirigere più in Italia, ma non mi fu chiesto, e in America di cui mi attraeva l’efficienza, ma invece vi giunsi col nuovo millennio, debuttando alla New York Philharmonic nel 2000, a Chicago l’anno dopo e alla Metropolitan solo nel 2005”.
Cosa invece rifarebbe?
“Sono fiero di aver detto di no alla Scala finché non m’è sembrato che fosse il momento giusto. Da Milano aveva avuto proposte già alla fine degli anni Novanta ma non ero ancora abbastanza preparato e solido per confrontarmi con un teatro di cui sentivo, e sento tuttora, l’importanza. Non volevo essere poco rispettoso della sua storia, accettando per ambizione, senza essere convinto di essere all’altezza di ciò che alla Scala si deve poter offrire”.
Dal grande al piccolo. In dicembre ha tenuto a battesimo il teatrino di Camogli, nella sua seconda residenza personale italiana…
“Quella serata è stato un vero regalo, e il teatro è una chicca. Raramente ho provato tanta emozione e gioia. Riaprire oggi un teatro è un gesto-simbolo di bellezza straordinaria. Un raggio di luce che riguarda tutti. Purtroppo attorno alla musica e alla politica della musica gravitano persone che non amano la luce: preferiscono nasconderla, se non riescono a spegnerla subito”.