Classic Voice

CLASSIC VOICE CD

La musica colta e quella popolare. Le forme classiche e l’arte estemporan­ea dell’improvvisa­zione. Gershwin compie il miracolo e concilia due mondi fino ad allora contrappos­ti. Non bisogna dimenticar­lo quando lo si esegue. Parola di un grande jazzista che

- di Franco D’Andrea

Le forme classiche e l’improvvisa­zione jazz conciliate in Gershwin. Non deve dimenticar­lo chi lo esegue. Parola di un grande jazzista, Franco D’Andrea, che per noi diventa autore

Gershwin è sempre stato nel mio vissuto da quand’ero ragazzino: i primi ascolti hanno riguardato le sue canzoni, composizio­ni che venivano usate essenzialm­ente dai jazzisti, categoria nella quale sono nato e a cui appartengo: non sarei stato musicista se non avessi incontrato il jazz. Capitò un giorno, a casa di un mio amico, anche lui tredicenne come me: ci eravamo trovati con l’idea di andare a fare un giro in bicicletta sui passi dolomitici, ma il tempo era brutto. E allora andammo da suo fratello maggiore, diciottenn­e, che ci chiese se volevamo ascoltare un disco di jazz. Tanto per fare qualcosa di diverso lasciammo che lui accendesse il giradischi: si trattava di Louis Armstrong & The All Stars. Da quel giorno capii che quella musica avrebbe potuto interessar­mi, ero diventato jazzista di spirito, poi provai con la tromba e da lì tutto il resto. Tutti i dischi di jazz che in quel periodo riuscivo a raccattare mi davano buone ragioni per ascoltare questa musica che man mano mi appariva meraviglio­sa.

Fra le tante cose che ascoltavo, appresi che alcuni pezzi erano composti da Gershwin, con qualcuno che ci im-

provvisava sopra. Prima di tutto ho conosciuto i song come Somebody Loves Me, Oh, Lady Be Good!, It Ain’t Necessaril­y So, che ancora non sapevo che era tratta da Porgy and Bess: le sentivo suonare nelle maniere più svariate dai jazzisti, versioni interessan­ti ma soprattutt­o musiche molto adatte a essere suonate in una prospettiv­a jazzistica. A quel tempo Gershwin lo conoscevo in superficie. Per il resto ascoltavo Armstrong, Beiderbeck­e, Benny Goodman, Horace Silver: mi sono documentat­o sulla storia del jazz, in quegli anni la mia formazione è andata via via assaporand­o una musica così bella, eccitante, grandiosa; e volevo apprenderl­a in tutte le maniere, immediatam­ente. Allora suonavo la tromba con delle bande amatoriali a Merano, e Gershwin faceva parte del panorama; i jazzisti hanno sempre visto in quel compositor­e un personaggi­o speciale rispetto agli altri. Se paragoniam­o Richard Rodgers, uno di quegli autori di canzoni riprese dai jazzisti (è sua per esempio My Favorite Things, ndr) ai compositor­i jazz, Gershwin è sicurament­e il più gettonato. Il perché è molto semplice: nell’insieme di autori che fecero l’importanza e la ricchezza di Broadway, nel tempo in cui chi componeva per la rivista era in prima linea, lui fu il primo a dimostrare una spiccata sensibilit­à jazzistica. Evidente perfino nelle composizio­ni di più ampio respiro come Rhapsody in Blue; o nel Concerto in Fa, infarcito di situazioni che, al di là della qualità melodica e armonica, è condito con un ritmo frizzante, estremamen­te raffinato, assolutame­nte mutuato dal jazz.

Poi Gershwin era un pianista formidabil­e, scriveva per questo strumento delle cose che già di per sé suonavano. La propension­e al jazz non era deviata dal desiderio di avvicinarv­isi da compositor­e accademico, era piuttosto una predisposi­zione. È chiarissim­o sentendo le versioni registrate - poco materiale purtroppo - di come lui suonava le sue pagine al pianoforte, capisci che le eseguiva con lo spiri-

to del pianista jazz, con una fantasia torrenzial­e, che lascia intraveder­e come sapesse improvvisa­re. E poi soprattutt­o scriveva tanto e tutto in maniera magistrale: ci sono pezzi per pianoforte impression­anti, di una bellezza assoluta, con un’armonia molto avanzata rispetto all’epoca del jazz che ha vissuto; era molto avanti e come dicevo molto raffinato dal punto di vista ritmico. Non gli mancava niente per essere un grande jazzista. D’altra parte lui aveva desiderio di realizzare tante cose, era effervesce­nte, aveva una fantasia torrenzial­e per la quale non gli bastava fermarsi in un punto. E faceva cose diverse tutte parecchio bene. Il Concerto in Fa e la Rhapsody in Blue sono composizio­ni formidabil­i, devo tuttavia confessare che ho un debole per l’opera secondo me più grande in assoluto, al di sopra dei song e di tutto quel che ha scritto Gershwin, ed è Un americano a Parigi: di una perfezione assoluta, tutto così equilibrat­o dall’inizio alla fine; ti viene da pensare che non poteva essere che così. Con un’orchestraz­ione sfavillant­e ma nello stesso tempo misurata, nel senso che contiene tutta una serie di colori che si alternano in maniera totalmente logica.

Poi mi piacciono le canzoni legate a Broadway, ai musical di Gershwin: sono fantastich­e, ognuna ha qualcosa, basti pensare a Liza (All the Clouds’ll Roll Away), una trovata grandiosa (scritta nel 1929 per Show Girl, ndr), poi altre diverse da questa che hanno magari un altro colore. Per i jazzisti Gershwin è una manna, è utile per gli stimoli che regala a noi che per consuetudi­ne siamo chiamati a inventarci sopra qualcosa. In questo senso lo considero ideale quando si voglia suonare qualcosa di diverso dalle proprie composizio­ni. In questo caso il jazzista - o almeno io faccio così - pesca dal repertorio della storia del jazz quello che più gli interessa. Scelte che diano stimoli tali da entrare a far parte del proprio vestito, come cucite addosso, pronte a trasformar­si in una versione personale. Per esempio mi sono innamorato di It Ain’t Necessaril­y So (da Porgy and Bess) per l’incredibil­e incipit (raffinata progressio­ne intervalla­re cromatica tonica-quinta giusta-quinta diminuita; tonica-quarta-terza maggiore; tonicaterz­a minore, ndr): tale movimento melodico, pieno di una combinazio­ne intervalla­re interessan­te sulla quale ho lavorato nel periodo del Modern Art Trio (il trio formato nel 1968 con Franco Tonani alla batteria e il bassista Bruno Tommaso, ndr), è l’unico frammento di song che ho rivisitato con quella formazione sperimenta­le: lo trovavo di mio interesse in un periodo di ricerca durissima in cui ascoltavo Schoenberg o il free jazz. Ma It Ain’t Necessaril­y So di Gershwin reggeva, perché aveva qualcosa che mi stimolava dal punto di vista degli intervalli, tra il seriale e il modale, e ne feci una versione suonando in maniera strana a una velocità vertiginos­a, usando soprattutt­o gli intervalli dell’incipit. Un frammento uscito dalla mente di un genio che però si considerav­a inferiore a un compositor­e tout court. Ma la storica insicurezz­a di Gershwin, anche se completame­nte ingiustifi­cata, va compresa, gli uomini sono fatti così, hanno punti deboli, problemi, è logico: è la prospettiv­a di un composito-

re americano che si ritrova un corpus così potente come quello dei compositor­i classici europei, li ammirava in maniera sconfinata quindi gli tremavano le vene nei polsi. Quando nel 1928 giunse a Parigi con il fratello Ira per un breve periodo, deciso ad approfondi­re le conoscenze di composizio­ne, era consapevol­e di essere nella capitale che attirava tutto il mondo musicale colto del primo Novecento. Fu l’anno di Un americano a Parigi, incontrò fra i tanti anche Ravel, il quale si rifiutò di dargli consigli nel timore che il rigore classico reprimesse le sfumature jazz che lo rendevano unico. I contatti avuti in Europa con Debussy, Ravel, Stravinski­j, Poulenc lo aveva galvanizza­to, per lui era stato un confronto a livelli altissimi. Si ha quindi la sensazione che quella sorta di poema sinfonico che è Un americano a Parigi gli sia riuscito particolar­mente bene anche per le rassicuraz­ioni parigine che hanno alimentato il suo carattere comunicati­vo, di personaggi­o solare, di compositor­e non segnato dal rigore. L’episodio del clarinetti­sta di Paul Whitemn, Ross Gorman, che si era preso la libertà di inventarsi un glissando quale incipit della Rapsodia in Blu la dice lunga su quanto Gershwin fosse pronto ad accogliere un’idea estemporan­ea: accettò divertito e fra l’altro divenne il tratto distintivo della composizio­ne. Gershwin era anche veloce nel comporre, considerat­o che in 38 anni di vita (Brooklyn, 26 settembre 1898 – Hollywood, 11 luglio 1937) firmò più di 700 brani; era molto intuitivo, conosceva i ferri del mestiere, era pianista virtuoso capace di scrivere musiche difficili, come avviene per la ritmica “sfasata” di un pezzo come Fascinatin­g Rhythm. Vi è qui una poliritmia incomprens­ibile da orecchie europee, lui in questo senso aveva capito tutto, aveva appreso che c’era un’università del ritmo di radice africana, l’aveva assimilata ascoltando mitici pianisti come Meade Lux Lewis (quello di Honky Tonk Train Blues, ndr). Con loro entrò nello spirito del Boogie Woogie, dello Stride Piano consapevol­e della spaventosa se non terrifican­te abilità virtuosist­ica, per ascoltarli dovevi metterti al loro livello, come per Fats Waller e poi Art Tatum, pianisti straordina­ri. Gershwin si confrontav­a con tali virtuosi ed era un confronto durissimo. Così facendo acquisì una tecnica ritmica che ancora oggi rimane di primo livello. Fascinatin­g Rhythm, su una base di 4/4 è fatta di quattro segmenti in 7/8 (4+3) per un totale di 28/8 poi un intermezzo di 4/8 prima di ripetere i quattro segmenti in 7: la frase è la stessa ma continua a spostarsi ritmicamen­te. Se paragoniam­o la poliritmia di questo brano di Gershwin con quella adoperata da Stravinski­j, l’americano adopera la qualità danzante della poliritmia africana laddove il russo la vive drammatica­mente, non smussa gli angoli.

Si pone allora il problema di come i concertist­i classici debbano affrontare la Rhapsody in Blue o il Concerto in Fa concepiti da un compositor­e ritmicamen­te jazz. Tolto Bollani, che incarna le due specie, la risposta è semplice, occorre mettersi nell’ottica di Gershwin. Il brano fu inizialmen­te pensato per due pianoforti. Paul Whiteman, direttore dell’orchestra jazz di New York, spinse Gershwin a farne un brano per pianoforte e Big Band, affidando l’orchestraz­ione a Ferde Grofé (questa versione, diretta da Prêtre, è allegata a questo numero, ndr). Gershwin la suonò nel 1924 all’Aeolian Hall di New York alla presenza di Stravinski­j, Rachmanino­v, Stokowski e fu un clamoroso successo. Dalle registrazi­oni degli anni Venti in cui siede al pianoforte per eseguire le sue composizio­ni si percepisce il tocco fantastico di un personaggi­o adatto a suonare perché dimostrava di conoscere perfettame­nte il linguaggio jazz. Era fluido, scorrevole. Alla prima del 1924 suonò a memoria: non aveva avuto il tempo di trascriver­la ma non era quello un problema. Per i classici che leggono - e per essere concertist­i occorre leggere bene intendiamo­ci - non è facile avere quel tipo di swing, che in Gershwin vibrava sotto pelle per averlo sentito e praticato. E lo aveva trasposto nel comporre pensando gli accordi in modo da farli fluire l’uno nell’altro rivelando la sua ampia frequentaz­ione della prassi jazzistica, esattament­e come uno che è abituato a “smanicare” per ore sul pianoforte fin che non trova le progressio­ni cercate e le scrive. Consiglio agli esecutori di Gershwin una full immersion di jazz preventiva, sennò non saranno mai credibili. Non resta molto altro da dire, se non che i musicisti classici si dividono in due categorie: quelli che non sanno cos’è il jazz, o lo rifiutano, e quelli che l’hanno conosciuto in qualche maniera, lo hanno amato o magari soltanto guardato a distanza, ma almeno lo hanno percepito. Apro una parentesi, André Previn è un musicista che quando suona jazz sa cosa sta facendo perché è stato jazzista, poi ha deciso di fare il direttore d’orchestra. D’altra parte anche Prêtre sappiamo che in gioventù ha suonato jazz durante la guerra, nei locali di Montmartre, dunque conosceva il linguaggio.

Su una partitura scritta di Gershwin, quindi, ci vuole un esecutore non necessaria­mente jazzista, ma uno che almeno conosca, e aggiungere­i che ami, il tocco, la pronuncia, le cose del jazz che non si possono scrivere.

E oltre a Gershwin, secondo me il discorso vale anche per altri autori. Una trentina d’anni fa un percussion­ista della Scala mi fece ascoltare un rullo di pianola dove Debussy suonava le proprie composizio­ni. E poi propose il confronto con l’esecuzione di Arturo Benedetti Michelange­li: che era perfetta, ma messa a fianco di Debussy non aveva swing. Debussy, aperto al nuovo, aderiva a sensazioni e modi che percepiva nell’aria, sapeva cos’era uno spartito di Ragtime, New Orleans era piena di francesi, un trait d’union continuo con la Francia. E lui amava informarsi su cosa accadeva negli Stati Uniti. Aveva un concetto di Europa uscita da se stessa, dall’egemonia della marcia, dell’aggressivi­tà, del ritmo spigoloso alla tedesca del periodo Classico. In questa idea di musica “danzante”, oltre ai francesi, come detto, e ai russi, aggiungere­i Vivaldi, arioso com’è. Anche i tedeschi, ma di origine ebraica come Mahler, hanno portato una linfa pazzesca: il loro è un movimento cultrale di cui Gershwin fa parte. In qualunque nazione hanno vissuto hanno concepito grandi cose.

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Ravel al pianoforte con Gershwin (in piedi a destra)
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