CLASSIC VOICE ALBUM
Sembrava essere sopravvissuta a un mondo passato. Scintillante e salottiero. Per questo l’arte pianistica di Nikita Magaloff venne rubricata come desueta. Ma negli ultimi anni si prese molte rivincite. Da Chopin a Scriabin
Sopravvissuta a un passato salottiero, l’arte pianistica di Nikita Magaloff sembrava desueta. Poi arrivarono le rivincite. Da Chopin a Scriabin
Un recital ideale di Nikita Magaloff può essere impaginato in maniera abbastanza facile, sia perché siamo in grado di accedere a una numerosa discografia e a una buona dose di registrazioni dal vivo, sia perché la curiosità di Magaloff nei confronti del repertorio anche meno battuto era proverbiale e davvero impressionante. Le sue scelte si indirizzavano infatti a una varietà di composizioni che andavano da Bach a Stravinskij. Il modo di suonare di Magaloff, la benevolenza con la quale era accolto dal pubblico di tutto il mondo, le sue numerosissime apparizioni in concerto soprattutto in Italia sono tutti fenomeni rapportabili anche ai differenti periodi della sua carriera e soprattutto al gusto imperante in un mondo apparentemente immobile e conservativo come quello della musica classica. Sebbene l’approccio di Magaloff potesse cambiare da un giorno all’altro e risentire degli umori della serata - egli insisteva sul fatto che ogni volta suonasse in maniera diversa una medesima composizione - lo stile era comunque quello di un pianista maturato alla vecchia scuola di Philipp, cresciuto a forza di ore e ore di studio sulla tecnica digitale, secondo un’abitudine che egli stesso trovò poi parzialmente deprecabile e non del tutto utile per il curriculum dei giovani. Accanto a questo tipo di
formazione Magaloff poteva però vantare la frequentazione e l’amicizia con Prokof’ev, un certo legame che lo portò ad avvicinarsi a Stravinskij, lo svolgimento di un percorso di vita che lo vide collaborare strettamente con un artista del livello di Szigeti (ne sposò la figlia Irène) e la conoscenza, insomma, di un milieu culturale europeo di un certo prestigio. Una specie di bella vita, nel senso culturale del termine, ma anche di frequentazioni sociali (era di origine principesca), che assomiglia, in tono certamente meno eclatante, a quella condotta da Rubinstein e da lui così bene illustrata nella sua autobiografia. Autobiografia che purtroppo Nikita non ebbe il tempo di scrivere (come avrebbe potuto, immerso fino alla fine nell’attività concertistica, nell’insegnamento, nella frequentazione delle giurie dei concorsi?) e che sarebbe stata sicuramente di grande interesse, almeno a giudicare da quel poco o tanto che egli raccontava quando era in compagnia, cioè quasi sempre. Ma ritorniamo al punto essenziale. Negli anni 50 e 60 Magaloff si trovò a cercare spazio in un mercato che proponeva nomi certo più altisonanti del suo, sia per ciò che riguarda i pianisti nati ancora nell’800 o nei primissimi anni del nuovo secolo sia per quelli, come Richter, che di Magaloff erano quasi coetanei. Negli anni 70 e nei primi anni 80, quando oltretutto avanzavano le nuove generazioni nate ai primi degli anni 40, il suo modo di suonare era considerato del tutto fuori moda. Fu solamente a carriera molto avanzata che ci si cominciò ad accorgere che il vecchio signore con il cappello e i guanti, estremamente affabile con tutti salvo magari una sera al ristorante fare i capricci perché un refolo di aria condizionata gli arrivava sul collo, era in realtà non solamente un esempio dello stile di un mondo che andava scomparendo. Magaloff, contrariamente al caso dei più giovani e agguerritissimi colleghi, era in possesso di una manualità felice, diciamo “poco conflittuale”, di una memoria prodigiosa e di un gusto e di una curiosità che gli permettevano di spaziare in lungo e in largo nel repertorio, anche quello dimenticato o messo da parte perché “poco impegnato”. Ed era una delizia ascoltarlo non solamente nei cicli chopiniani che lui eseguiva con grande eleganza e musicalità, ma anche e soprattutto nelle pagine da lui miracolosamente resuscitate, come accadeva spesso durante il Festival di Brescia e Bergamo ai tempi in cui gli artisti dovevano suonare brani attinenti al tema del Festival stesso, non copiare e incollare, come accadde più tardi, un programma buono per tutte le destinazioni. Certo, i suoi studi di Chopin o Kreisleriana di Schumann non erano perfetti come quelli di Pollini (non si parla qui di errori, semplicemente di un modo di considerare la musica del periodo romantico ancora in maniera molto descrittiva, di usare poco pedale, di servirsi di un rubato e di una scansione poco regolare del ritmo, tutti aspetti che a quei tempi facevano storcere il naso a molti, non foss’altro perché Magaloff era molto amato dalle vecchie signore). Il suo Beethoven - ricordiamo un’op. 109 eseguita alla Società del Quartetto - a prima vista risultava sconcertante, anche nei confronti con lo stile di pianisti più anziani di lui come Rudolf Serkin o Claudio Arrau o lo stesso Wilhelm Kempff. Però qualche dettaglio interessante era sempre presente, qualche sfumatura di suono che magari illuminava i particolari del linguaggio in maniera diversa dal solito. E allo stesso tempo nel momento in cui artisti ancora più giovani tentavano di cimentarsi, che so, nelle Goyescas di Granados o nella Sonata di Grieg, ecco che la sua lezione, magari ripescata a distanza di decine d’anni dall’ultimo concerto o dall’ultima seduta in sala d’incisione, diventava quasi un manifesto.
Torniamo quindi ad ascoltare una Sonata di Haydn non ancora divenuta oggetto di “integrali” o di dotte disquisizioni musicologiche, recuperata qualche anno prima rispetto alla tabella di marcia dello Horowitz concertista; una Krakowiak elegantissima, cavalleresca, che dal vivo nessuno aveva più il coraggio di proporre, o uno scampolo dell’attività di Magaloff come elegante accompagnatore di Szigeti. E attenzione: nel 1965 si poteva rimanere giustamente ammaliati dallo Scriabin di Horowitz, ma qui Magaloff non solo presenta il ciclo completo dei 12 Studi op.8 e non una scelta antologica, ma ha moltissime cose da dire e lo fa oltretutto con una sicurezza tecnica che ben pochi pianisti di oggi saprebbero garantire in pubblico.