Chic e VERTIGINE
Si spegne a 92 anni Georges Prêtre, il direttore che ha espresso al massimo grado l’eleganza francese, coniugandola con una insospettabile nevrosi espressiva. Protagonista alla Scala e a Roma (Rai e Santa Cecilia), il suo “Werther” era diviso tra nuance e
Scorrendo su Google la biografia di Georges Prêtre, morto a Navès, Dipartimento del Tarn, il 4 gennaio ultimo scorso, si constata una stranezza inspiegabile per un motore di ricerca che si presumerebbe infallibile: il grande interprete da poco passato nell’elenco dei più risulterebbe presente sui palcoscenici romani soltanto in una occasione: una Carmen diretta a Santa Cecilia nel 2005 in forma di concerto. La cosa, ancor prima che farmi impressione, mi ha colmato di diletto visto il mio dispettoso mal di pancia verso tutto ciò che puzza di precisione tecnologica; ma, lo ammetto, queste a molti parranno fisime da vecchiaccio che non si arrende all’evolversi del Moderno.
Naturalmente è possibile, anzi certo, che con quell’elencazione non si volesse ambire alla completezza; rimane però che di uno degli interpreti che in misura maggiore ha donato il suo talento a noi che di questa ormai disastrata capitale siamo abitanti, apprendere dal più sofisticato elargitore di notizie odierno che Prêtre ci avrebbe fatto partecipi della sua arte in tal unica data fa comunque il suo effetto. Volessi solo contare le volte in cui ho goduto qui della presenza di questo simpaticissimo ex trombettista (e, di sfuggita, pugile) sarei in grave difficoltà di computo: è vero che egli si affacciò dal podio del Teatro dell’Opera nella sola circostanza di un antico Faust che ci sembrò fantasmagorico per gli usi per allora caserecci, per non dir di peggio, di quella istituzione, però gli innumeri contributi del Nostro alle stagioni sinfoniche romane furono tanti da non poterli neppure schedare (tra le più recenti, due sono presenti nella collana discografica dell’Accademia di Santa Cecilia, con musiche di Beethoven e Brahms).
E fra di essi due specialmente illuminanti cui ebbi la fortuna di assistere e che nessuno strumento d’informazione può permettersi di eludere: i celebri Troyens del 1969 all’Auditorium Rai che Francesco Siciliani aveva fornito del più esclamativo team canoro mai udito altrove, vale a dire Gedda, Horne, Verrett, Massard e Luchetti, e la direzione de Le Martyre de saint Sébastien di Debussy per l’Accademia Filarmonica, con Geneviève Page a dar voce ai versi di D’Annunzio e Luchino Visconti in platea. Google nescit.
Che se ne deduce? Niente più di un dato statistico che non dovrebbe interessare nessuno, se non fosse che in quelle due circostanze fu possibile circoscrivere al suo meglio la quintessenza dell’arte direttoriale del Nostro, ossia lo chic combinato con la vertigine. Che interpreti di nazionalità francese facciano aggio sullo chic per candidarsi nell’agone è piuttosto ovvio, si sa; ma al di là di casi isolati (forse
il più autorevole quello di Pierre Monteux) nessuno di costoro ha mostrato di voler o saper coniugare il verbo della finezza dell’eloquio insieme a quello della spettacolarità e della violenza. Senza di che, faccio per dire, avrebbe scarso senso cimentarsi con la musica di Berlioz, ossia di uno che proprio sull’iperbole orchestrale fondò il proprio magistero e che coniugò al massimo grado la scolpitezza neoclassica del rimpianto per le antiche vestigia con un ardore dei sensi quasi preraffaellita. Oggi che ci ritroviamo a dover rammentare con qualche tristezza il commiato di Prêtre dal mondo dei vivi, lui che, nato nel 1924 a Waziers, regione del Nord-Pas de Calais, aveva scalato la vetta del novantaduesimo anno per morire a Navès, nel gennaio ultimo scorso, abbiamo poche certezze oltre quella di tal singolare connubio di componenti dialogiche. Perché Prêtre non è stato soltanto il finissimo “francese” abile ad aderire con spontanea facilità al verbo di Poulenc e Massenet, Gounod e Saint-Saëns ma anche colui che si è cimentato spesso con l’Altrove e con esiti non proprio d’accatto. Farò un commento minimo sui due contributi, 2008-2010, al concerto di Capodanno a Vienna, gioiosi fra tanti, ma non dimenticherò che dal 1986 al 1991 egli fu direttore stabile dei Wiener Symphoniker, esordì nel 1956 all’Opéra-Comique con Capriccio, fece in forma di concerto nel 1971 un fascinoso Rosenkavalier presso la Rai di Napoli e parve sovente corrispondere alle nevrosi delle sinfonie ciaikovskijane con quell’ardore che molto ammirammo e con l’esattezza di fraseggio che a quel nume si deve. Senza poi trascurare fra le curiosità una sortita all’Opéra-Comique nel 1960 per la “prima” parigina di un Volo di notte di Dallapiccola.
Non particolare frequenza ebbe nel suo repertorio l’opera wagneriana che si nutrì di pochi titoli, di cui non si ha notizia fuor che dalla cronologia, e che comunque non sfuggirono alla sua vorace bacchetta, dicesi Walküre, Tristan e Parsifal; e invero saremmo tutti assai curiosi di capire cosa ne sortì. Si dovrà far caso infine alla costanza di frequentazione del repertorio melodrammatico italiano, che lo vide primeggiare in ricordevoli serate alla Scala, a Venezia e Firenze oltre che spesso all’estero; e per ovvia sintesi, basterà citare un Don Carlos nel 1973 alla Fenice prospettato nella sua originaria forma parigina e i tanti Puccini, fra Manon Lescaut, Tosca, Butterfly e Turandot. Mentre a proposito di una sua notevole Butterfly alla Scala di diversi anni addietro, visto che la vita dei vecchiacci è disseminata di ricordi (e malignità), mi piace far cenno di una piccola cosa: quando Prêtre fece ritorno sul podio, ad avvio del secondo atto, una limpida voce si levò dall’alto del temutissimo loggione a farsi giustizia dall’alto di una inoppugnabile cognizione dei fatti. “Maestro, orchestrazione più leggera!”. Chissà
se Puccini, dall’alto dei cieli, o dagli sprofondi dell’inferno, avrà annotato e corretto.
Era pressoché escluso, per ragioni di personale indole ancor prima che geografiche, che Prêtre se la vedesse con titoli che probabilmente non attenevano del tutto al proprio dna, quali quelli del teatro romantico italiano, leggasi Bellini e Donizetti, o lo stesso Verdi che non lo vide mai impegnato con vera quotidianità, ma ogni volta che il fato lo sollecitò a misurarsi con la musica dei suoi vicini di sponda, in teatro o in disco, i risultati furono quasi sempre di bella evidenza, visto che passionalità e ardore non mancavano a quel ricettore di schemi drammaturgici i più vari. Il capitolo dei contatti con la musica natia è infine, e per necessità, il più ricco. E qui va affermato senza remore che se sovente rammentiamo questo maestro come il primo forse fra tutti gli autorevoli francesi del suo e del nostro tempo (qualcuno, tacendosi dei nomi, anche di lui più ossequiato) ad esplorare il repertorio nazionale con così grande presa emotiva, la cosa vale per l’opera quanto per la musica sinfonica di quel paese. Per dirne solo una, io stesso ho memoria di un Bolero raveliano a Santa Cecilia che mandò tutti a casa in eccitazione quasi cardiaca, tale parve la maestria con cui venne condotto in porto lo speciale itinerario di magia dinamica insita in quel percorso. Ma per tornare al teatro, ovvio far menzione subito di un’opera fra tutte decisiva come Carmen che egli offrì agli italiani, credo, in più d’un’occasione. A un esito definitivo di questo capolavoro dannato e miracoloso nulla mancò: non davvero l’aristocrazia del gesto, non l’appannarsi frequente di quel cielo mediterraneo nella foschia quasi africana dell’anima. Ed è curioso che, per ritrarre quella femmina nata al crocevia tra musical e tragedia, ebbe forse in lui meno vistosa eco il lieve pettegolezzo del comique, la qual cosa ci
Dall’alto in senso orario, alla Scala il 27 febbraio 2016; con Fiorenza Cossotto in “Carmen”; a Santa Cecilia; alla Scala nel 1978 con “Madama Butterfly
appare in tutta evidenza nella ormai celebre edizione discografica che egli affrontò avendo a protagonista la Callas. Ma il vero riposa forse in una circostanza decisiva: mancava a costei la statura della soubrette perché quel basilare aspetto dell’opera venisse privilegiato e portato ad autentica combustione dal suo direttore. Altra tappa a me nota per personale esperienza uditiva fu quella di uno splendido Werther fiorentino; ivi il magistero di Georges si impose con nettezza di caratteri mai prima udita. Si era nel 1978 e fu messo subito in chiaro come la via da seguire per il Nostro fosse non quella di una inerte sentimentalità ma di una malcelata nevrosi dei sensi; l’orchestra, finissima nei luoghi in cui le spetta e le conviene (la rarefazione timbrica in cui s’avvolge l’“O nature” di Werther), veniva sconvolta con precisa coscienza del dissidio acustico là dove la sua voce si spinge fin quasi a incontenibile isteria nel punto di massima infelicità dei due protagonisti. Poteva sembrare un superficiale eccesso, e invece valeva semplicemente a svelare le coordinate sghembe della musica massenetiana: opera da salon borghese, ma tale da certificare come anche nei salotti borghesi si possa verificare la perdita dell’aplomb. Alla fine il goethiano protagonista era dunque per la bacchetta di Prêtre una sorta di déraciné del suo secolo, escluso da una buona società decisa a contentarsi delle proprie virtù familiari e assai poco propensa ad affrontare l’Ignoto. Addio Georges, che il sonno ti sia lieve in quell’oscuro recesso che immaginiamo essere il regno dell’ultimo riposo.