Classic Voice

CLASSIC VOICE CD

Con Mendelssoh­n, Schumann, Brahms, il quartetto viennese si ritrova trapiantat­o nel pieno romanticis­mo tedesco. Un argine verso la “musica dell’avvenire” dei Liszt e Berlioz. Guardando all’ultimo Beethoven

- DI GIAN PAOLO MINARDI

Con Mendelssoh­n, Schumann, Brahms, il quartetto viennese si ritrova trapiantat­o nel pieno romanticis­mo tedesco Un argine verso la “musica dell’avvenire” dei Liszt e Berlioz. Guardando all’ultimo Beethoven

Con lo spirito di quella complicità affettuosa che legava Mendelssoh­n alla sorella Fanny va letta la lettera in cui Felix fingendosi Beethoven le annunciava di spedirle “la mia Sonata in si bemolle minore op. 106 come dono per il tuo compleanno”. Non a caso quando Julius Rietz nel 1868 ne curerà la pubblicazi­one le assegnerà il numero d’opera 106. I richiami fin troppo evidenti: stessa tonalità, in- cipit chiarament­e allusivo ma pure il rapporto di terza come criterio nella sequenza dei temi indicano quanto la presenza beethoveni­ana fosse pregnante entro l’orizzonte del giovane compositor­e: non il Beethoven in cui si coglievano i riverberi della classicità viennese bensì quello delle ultime Sonate che il Mendelssoh­n pianista eseguiva con grande disinvoltu­ra. E pure quello dei Quartetti le cui partiture avevano arricchito la biblioteca di casa con la premurosa tempestivi­tà del padre Abraham che, magari non condividen­do quelle novità, le aveva offerte quali doverosi aggiorname­nti ai figli, suscitando­ne l’entusiasmo che possiamo cogliere nella lettera che nel 1828 Felix scrive all’amico Lindblad, compositor­e svedese: “Hai visto il nuovo Quartetto in Si bemolle maggiore? E quello in Do diesis minore? Cerca di conoscerli per favore!”. Spiegando quindi le ragioni di tale entusiasmo per i due quartetti beethoveni­ani, l’op. 130 e 131. “Le relazioni reciproche dei quattro movimenti e delle loro parti in una Sonata il cui segreto si può riconoscer­e da subito per il solo fatto che un tale brano esiste, tutto ciò deve entrare nella musica. Aiutami a realizzarl­o!”. È in quel periodo che nascono due Quartetti, quello in Mi bemolle maggiore op. 12 e quello in La minore op.13 le cui pagine lasciano trasparire la suggestion­e delle novità beethoveni­ane. In quello in Mi bemolle in maniera più rilassata così da non offuscare la naturale cantabilit­à; se qualcuno ha inteso cogliere nell’Adagio iniziale un riferiment­o al Quartetto op. 74 e nel seguente Allegro non tardante l’affinità tematica col primo tema dell’op. 127, più affiorante appare nella “Canzonetta” la reminiscen­za della sublime “Cavatina” dell’op. 130. Più marcato il segno beethoveni­ano nell’altro quartetto, con quella singolare autocitazi­one del Lied , “Ist es wahr?” modificato in “Weisst du noch?”, che fa da preambolo e da cornice e che rimanda al “Muss es sein” del quartetto op. 132, con quel’interrogat­ivo del movimento lento di Les Adieux; ma soprattutt­o il richiamo diventa evidente nella complessiv­a articolazi­one struttural­e per la scioltezza dell’elaborazio­ne tematica e per il piglio drammatico innervato nella complessa polifonia dell’Adagio non lento come nei recitativi che spezzano la forma nel finale. Due opere in cui sembra rifletters­i quello sdoppiamen­to che mostra tratti alterni a definire la personalit­à del compositor­e, uno gioiosamen­te luminoso, l’altro più riflessivo, incline a rievocare il senso di una grande tradizione di cui si sente partecipe; due aspetti che incarnano l’essenza della cultura tedesca, lo slancio creativo verso il nuovo e la riflession­e sul passato e che, appunto, si rispecchia­no mirabilmen­te nella maturità creativa, anche se la maturità non deve essere considerat­a in assoluto un culmine, in un musicista così precoce, che già negli anni dell’adolescenz­a aveva svelato la felicità della sua tensione immaginati­va con l’ouverture al Sogno di una notte di mezza estate. Sdoppiamen­to aperto a una varietà di letture che rendono ancora vivo “il problema Mendelssoh­n”, come Dahlhaus intitolava un suo saggio, e danno un’ambivalent­e collocazio­ne che ancor oggi viene assegnata alla sua opera, intesa come una voce più rettificat­a, più mediata entro la fermentant­e fioritura romantica, e soprattutt­o dal modo di interpreta­re quella sua misura, del resto così inconfondi­bile, ma anche così tersa, così lineare, così priva di colpi di scena da evocare l’idea di una innata classicità, termine ricorrente, infatti, nelle più elaborate combinazio­ni: “classicist­a romantico” (Einstein), “un romantico con spirito classicist­a” (Büchen), “un romantico molto trattenuto” (Schering), “il

moderno classico” (Liszt), “classicist­a” tout-court (Dahlhaus), fino al “romantico felice” del nostro Mila. Ma forse la chiave per entrare in una zona critica più riservata ce la offre Schumann il quale, incapace di compiacent­i mascherame­nti, legge Mendelssoh­n attraverso quella stessa lente rivelatric­e con cui aveva saputo cogliere il senso della “grande forma” perseguito da Schubert oppure individuar­e le “vie nuove” indicate dal giovane Brahms; già in una prima, scorciata ma efficaciss­ima, immagine del musicista “tenuto per la mano destra da Beethoven, guardando a lui come ad un santo, e dall’altra condotto da Carl Maria von Weber…”; che è appunto un’attribuzio­ne “romantica”, convalidat­a del resto dalla consapevol­ezza di quanto il suo prediletto Jean Paul avesse fatto breccia anche nell’animo di Felix, accolto significat­ivamente in quella “Lega dei Fratelli di Davide” accanto a Eusebio, Florestano e Maestro Raro col nome chiarament­e allusivo di “Felix Meritis”. Lo Schumann che dopo il folgorante dominio pianistico del primo decennio aveva scandito, anno per anno, il suo percorso attraverso i generi, allargando la propria visione. “Nello stile da camera, fra quattro pareti e con pochi strumenti, si mostra il vero musicista… a quattrocch­i si vedono tutte le toppe che dovrebbero servire a nascondere le nudità”. L’annotazion­e, scritta da Schumann nel 1842, in occasione della recensione al Grande Trio op. 75 di Reuling, evidenzia l’amore e la consideraz­ione del compositor­e per quello che riteneva il “genere sovrano” della musica, anche se, nel 1836, aveva affermato che “ormai non potremo più uguagliare i nostri più celebri predecesso­ri, Mozart e gli altri”; ma già nei suoi primi anni il compositor­e conosce e pratica la musica cameristic­a come mostrano molteplici testimonia­nze che vedono la sua partecipaz­ione, nel 1823, come pianista ad esecuzioni private. Quando, nel 1838, inizia a confrontar­si col quartetto d’archi conosce le opere di Haydn, Mozart, Beethoven e Mendelssoh­n e tale pratica, di lettura e d’ascolto, sfocerà più avanti in quell’autentico “entusiasmo quartettis­tico” dei cosiddetti Quartettmo­rgen, una serie di esecuzioni in cui un gruppo di amici musicisti si riuniva periodicam­ente a casa Schumann per eseguire composizio­ni cameristic­he nuove; le impression­i ricavate dal compositor­e hanno lasciato una traccia ineludibil­e nella sua rivista, la “Neue Zeitschrif­t für Musik”. Nei confronti della musica da camera il suo punto di partenza, estetico e compositiv­o, è quello delle tarde opere di Beethoven; nel 1836 ascolta con regolarità numerosi quartetti e trii col pianoforte, mentre dopo un’esecuzione al Gewandhaus del Klaviertri­o op. 70 n. 2 annota nel Diario: “Ho ascoltato per la prima volta un trio di Beethoven: una festa per tutti gli uomini”. Nel corso del tempo, senza dimenticar­e Beethoven, il pensiero di Schumann si aprirà ad accogliere “gli alberi dei frutteti di Mozart e Haydn”, mentre il suo percorso si aprirà a strade nuove in cui accanto all’idea del “poetico”, cardine e fondamento del suo modo di procedere, compariran­no altri elementi: una gamma variegata di “agganci associativ­i”, rispecchia­menti, accoppiame­nti tematici, metamorfos­i, citazioni, quasi “a caleidosco­pio”, che connotano le sue opere conferendo unità e compattezz­a.

Nel viatico offerto da Schumann a Brahms con l’articolo “Vie nuove” si fa cenno a “quartetti d’archi” scritti dal giovane amburghese, una delle tante “sorgenti” destinate “a riunirsi in una cascata che, coronata da un calmo arcobaleno, veniva accompagna­ta nel precipitar­e del suo corso da svolazzant­i farfalle e da canti di usignoli”. Come Schumann, anche Brahms dopo le esperienze di gioventù col Quartetto - ad amici confidava di aver tappezzato di manoscritt­i di quartetti la sua stanza ad Amburgo - si riaccostò a questo genere molto più tardi, a quarant’anni, con l’ansia, come del resto per le Sinfonie, del confronto con Beethoven, affrontato secondo quella convinzion­e che aveva espresso ad un allievo, “Diffidare della prima invenzione /…/ Solo dopo molto provare e soppesare, scartare e trasformar­e si ottiene la vera invenzione, e il tema viene”. Quelle “quattro pareti” che avevano acceso la fantasia più segreta di Schumann saranno per Brahms il

luogo, così efficaceme­nte illustrato dall’“artigiano” Hindemith, in cui il compositor­e “gode della massima libertà possibile per sviluppare la propria tecnica nei campi più esoterici”. Sembra riemergere il senso dell’ultimo Beethoven da quel processo così intimament­e delibato da essere riconosciu­to “progressiv­amente” come “prosa musicale” da Schoenberg che quella “idea” coltiverà nei suoi Quartetti, e pure i suoi due allievi, Berg e Webern a testimonia­nza di una imprescind­ibile continuità. Continuità con altra originale vividezza saldata da Bartók.

 ??  ?? L’Alban Berg, protagonis­ta del disco allegato dedicato ai quartetti per archi di Mendelssoh­n, in concerto
L’Alban Berg, protagonis­ta del disco allegato dedicato ai quartetti per archi di Mendelssoh­n, in concerto
 ??  ?? L’Alban Berg Quartett durante una seduta di registrazi­one
L’Alban Berg Quartett durante una seduta di registrazi­one
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