EUROAMERICA
Dopo la “riforma” Bop, fu Miles Davis a opporre la svolta del jazz “cool”. Una rivoluzione parallela che ebbe arrangiatori come Gil Evans, capaci di “trattare” l’orchestra alla maniera delle 4 voci armonizzate. Con pathos e colori timbrici alla Ravel
Fu Miles Davis a opporre il “cool” al bop con arrangiatori come Gil Evans, capaci di “trattare” l’orchestra con pathos e colori timbrici alla Ravel
La fiammata bop, con le sue improvvisazioni al fulmicotone, pur avendo additato nuove strade, una volta esaurita la spinta iniziale ebbe di nuovo voglia di fornire al jazz - che come abbiamo spiegato la scorsa puntata è da sempre musica con lo sguardo rivolto al futuro - ulteriori ali con le quali spiccare il volo verso lidi inesplorati dove trovare neologismi di riposizionamento per la propria sintassi.
A parte il contrattacco centripeto compiuto dai veterani dell’Era dello Swing, orientati a fare un passo indietro come se i boppers non fossero mai apparsi, le forze centrifughe post-bop si avviarono in due direzioni opposte: da una parte il ridimensionamento espressivo del fenomeno, dall’altra la sua estremizzazione. La prima corrente riguarda il cool jazz del camaleontico Miles Davis, la seconda l’hard-bop e sue varianti (di cui ci occuperemo prossimamente).
Il cool non rinnega il bop da cui proviene. Intende piuttosto raffreddare l’esuberanza incarnata da Charlie Parker piazzandosi su un binario parallelo. Con “Bird” Miles aveva condotto un tratto di strada ritenendolo guida e mentore; ora invece cerca di accreditarsi quest’altra variante del jazz moderno; tuttavia l’adozione consapevole di un’espressione musicale contenuta, che rifugge dal narcisismo ostentato, più che definire il cool quale reazione al bop, come spesso lo si intende, finisce per risultare una componente che riaffiora in modo carsico nel jazz di varie epoche, rivelata da alcune costanti di riferimento: il ricorso obbligato all’arrangiamento scritto, il rifiuto di ogni apparente aggressività sonora, l’uso di certi procedimenti o forme di derivazione classica europea. Ne sono esempi Blue Rondo à la Turk di Dave Brubeck o Blues on Bach del Modern Jazz Quartet. Quest’ultimo ensemble aveva trovato la celebrità dopo una gavetta spesa come sezione ritmica della big band di Dizzy Gillespie. Il Modern - e con loro altri jazzisti difficili da classificare come Gerry Mulligan, Stan Getz,
Paul Desmond, Art Pepper - pur non rispecchiandosi nel bop, dovevano ammettere di appartenervi generazionalmente subendone i riflessi sintattici. Dal canto suo Davis, una volta staccatosi da Parker, del quale non tollerava le uscite imprevedibili, si era interessato a Gil Evans, un arrangiatore di origini canadesi che pareva l’antitesi di “Bird”. Evans sperimentava per l’orchestra di Claude Tornhille standard bop come Anthropology, Donna Lee, Yardbird Suite, song che sarebbero diventati oggetto di studio delle nuove generazioni di jazzisti: li rimaneggiava traducendoli nel formato big band; così facendo l’organico di Tornhille divenne l’incubatrice del cool, genere che più tardi sarà attribuito a Miles Davis con Birth of the Cool, (titolo-manifesto aggiunto per convenienza dal marketing della Capitol Records diversi anni dopo le registrazioni avvenute nel 1957).
Per riunire gli esponenti della scuola musicale emergente, la “camerata” del cool, invece del salotto fiorentino cinquecentesco che ospitava gli amici del Conte Bardi, si era accontentata dell’angusto seminterrato della 55a strada di New York dove abitava Gil Evans. Lì Davis ebbe la capacità visionaria e organizzativa di portare a termine i progetti discussi trasformandoli in concerti e registrazioni: fissò le prove, affittò locali e firmò contratti con la casa discografica Capitol. Ci fu poi un terzo uomo, Gerry Mulligan, che - nonostante venga sistematicamente omesso dalle storie di jazz a favore di Davis ed Evans - fu elemento decisivo nello scrivere la parte consistente degli arrangiamenti di questa incisione-manifesto.
Fra le prime reazioni alla novità l’accusa di eresia per l’“imperdonabile” esclusione del sax tenore in quanto emblema jazz suonò più tardi paradossale: non ci si accorse che l’adozione di strumenti “colti” era uno degli obiettivi di Birth of the Cool. In altri termini il corno di Gunther Schuller unito alla tromba di Davis era una scelta; idem il timbro brass band della tuba di Bill Barber a far da basso ostinato su un’armonia modernissima nella quale il sassofono baritono di Mulligan ribaltava le regole “cantando” le sue note più acute, raddoppiando le linee di Miles e del sassofono contralto di Lee Konitz. In questa concezione rovesciata dei ruoli si giocava l’innovazione: fino ad allora le big band costruivano l’orchestrazione sulle sezioni. Le ance da una parte, gli ottoni dall’altra, e la ritmica anch’essa a riscontro delle prime due. Un botta e risposta di tre forze in una sorta di torneo musicale. In tali contesti, che fosse Ellington oppure Basie a fare da frontman, il modello di riferimento era l’orchestra sinfonica europea. Con il cool invece si guardava a un ensemble di voci: un insieme strumentale manovrato alla maniera di un coro armonizzato sui quattro registri del soprano, contralto, baritono e basso.
Una sonorità orchestrale che rifiuta l’estetica dello swing, o almeno ne contiene le dinamiche attraverso quella che Mulligan definì una “violenza controllata”. Un suono trattenuto, un contenimento di emozioni che fece scalpore. Anzi sconcertò la critica: il cool sembrava sfuggire alle categorie del jazz fino ad allora conosciute. La nebbia si diradò quando Birth of the Cool, manifesto discografico davisiano pubblicato nel 1957, fu descritto dal critico di musica classica del “New Yorker”, Winthrop Sargeant, come “l’opera di un compositore impressionista, con un grande senso della poesia sonora e una puntigliosa attenzione per i colori timbrici. Le composizioni hanno un inizio, un corpo centrale e un finale. La musica, più che jazz, sembra quella di un nuovo Maurice Ravel”.