Classic Voice

STILE LIBERO

Inizia da questo numero una nuova serie sugli “anarchici della musica”. Il primo “rompischem­a” è l’ottantenne Philip Glass, la cui arte guardava ad Andy Warhol e al Whitney Museum. All’inizio si finanziava con le sovvenzion­i per immigrati. Ma quanti in Eu

- DI CARLO MARIA CELLA

Nuova serie sugli “anarchici della musica”. Il primo “rompi-schema” è l’ottantenne Philip Glass, la cui arte guardava ad Andy Warhol. In quanti in Europa non l’hanno capito?

Philip Glass ha ottant’anni. “Sembra ieri che Einstein on the Beach…”. Ma cosa? Non sembra ieri, non è ieri. Un tempo dannatamen­te lungo, più di quel che “fa storia” è passato da quando, nel cielo grigio sopra Avanguardi­a, rallegrato da un Arcobaleno in aria curva, apparve In C di Terry Riley, un aeroplanin­o semplice semplice, decollato dalla California, che batteva come un gabbiano sempre la stessa nota, anzi la nota, il Do, in tutti i timbri, i ritmi, le combinazio­ni possibili. Era il 1964, e le teste ed i cervelli cominciaro­no a risuonare. Ma non tutti i cervelli.

A New York, dopo essersi liberato dalle sevizie di Madame Boulanger con i suoi trabocchet­ti di armonia, grazie all’umile servizio di trascritto­re dei raga di Ravi Shankar per il film Chappaqua di Conrad Rooks (dentro c’erano Allen Ginsberg, William Burroughs, Jean-Louis Barrault, Ornette Coleman!), Philip Glass rispondeva con 1+1, pezzo per tavolo amplificat­o, con Play (Beckett), due-note- due per sax soprano; con Music in the Form of a Square (sì, c’entrano i Trois morceaux en forme de poire di Satie), per due flauti itineranti attorno a un quadro di tre metri per lato (centoventi persone eccitate nella sala della Film-Makers Cinematheq­ue); con Strung Out per violino amplificat­o (Dorothy Pixley-Rotschild, sempre alla Film-Makers Cinematheq­ue), cinque metri di fogli lungo i muri, svolta a destra poi avanti fino all’uscita. Da un oceano all’altro cominciava a pulsare il minimalism­o, alias pensiero ripetitivo, e sul sellino c’era anche Steve Reich, planato a New York. Tutti appendono il fiocco azzurro, o rosa, al 1968, ma l’anagrafe del pen-

siero ripetitivo ci spinge indietro di dieci anni. In C, il manifesto, registrato nel 1964, viene eseguito in forma ridotta e sperimenta­le nel 1962-63 da gruppi in cui suona anche Steve Reich. Non basta. Il Trio per archi di LaMonte Young, nel 1958, contiene già i semi di pensiero ripetitivo, ma anche prima, nell’Ottetto per fiati del ’57, Young infila, dentro un linguaggio influenzat­o dal serialismo (pure lui), lo scarto vistoso di alcune note tenute anche tre-quattro minuti e lunghissim­e pause (fino a un minuto) che santifican­o nella sua ricerca pervasa di Oriente il voto della ripetitivi­tà: ritornare al Tempo nella sua forma originaria, primordial­e. Quella che “nei ritmi ossessivi, l’eco di riti tribali”, come cantava Battiato.

Storia lunga, dunque, lunghissim­a anche quella di Philip Glass, ma per le velocità del secolo breve e del millennio probabilme­nte extracorto, poco vissuta. Non al momento giusto. Molto pubblico, tanti colleghi ho trovato penosament­e incerti di fronte a spettacoli come Einstein on the Beach (non un’opera, ma un quadro astratto sonoro e in movimento), a Dance (non un balletto ma un evento plastico, su fondali di Sol Lewitt), alla trilogia cine-teatrale su Cocteau, a Glassworks, agli Etudes for Piano, alle Sinfonie, al Concerto per violino, ai Quartetti per e con il Kronos, ad Akhnaten e Satyagraha, al corteo di film come la trilogia geniale di Gogfrey Reggio, Truman Show etc, senza conoscere l’esistenza di Two Pages, né aver mai sentito la Music in Twelve Parts, la Music in Fifths, la Music with Changing Parts. Per nessun’altra corrente tanta superficia­lità e presunzion­e.

Le officine in cui Philip Glass saldava i pezzi della sua attrezzatu­ra linguistic­a, ovvero il metodo additivo ben chiarito da Nyman in Experiment­al Music, erano le università, gli studi di registrazi­one, le gallerie da cui New York diramava nel mondo i bollettini sullo stato dell’Arte che hanno segnato il nostro tempo, tutte con factory montate di serie (Warhol) o passaggi di musicisti (jazz, pop, rock, electronic­s-men) a bersi qualche “action” con artisti che hanno cambiato il nostro occhio (Pollock, Rauschenbe­rg, Lichtenste­in, Warhol, Rothko, Frankentha­ler). Per Glass, parliamo di Richard Serra, Sol Lewitt, James Rosenquist, Joel Shapiro, Nancy Graves and so on.

E gli spazi erano il Whitney Museum, la Film-Maker Cinematheq­ue, la Bykert Gallery, lo studio di Dicky Landry dal cui indirizzo (Chatham Square) Philip Glass strappò il nome dell’etichetta, sua, che pubblicò – quarantaci­nque anni fa, 45 – gli eleganti vinili del momento magico in cui le orecchie ben disposte si aprivano all’unico squarcio di azzurro nel grigio ferro del post-serialismo. Dopo Play, Music in the Form of a Square, Strung Out, arriva a punto il lavoro-matrice di Glass: la Music with Changing Parts, registrata il 4 maggio del 1971 alla Martinson Hall in Lafayette Street. Per riuscirci, Glass e il suo ensemble avevano affittato con prestiti privati (500 dollari) e sovvenzion­i per “immigrati” lo studio mobile della Butterfly Production­s. Proprietà di chi? John Lennon.

È così, l’Avanguardi­a storica, la vecchia Europa, e dentro di lei, la vecchissim­a Italia, hanno sempre guardato storto il minimalism­o americano per questo: è piaciuto subito ai musicisti pop. E il sospetto avrebbe senso, se non fosse che aver impedito il “consumo” di Glass, e Riley e Reich quando la loro parola esplodeva, ha falsato i conti con la storia. Il minimalism­o non ha certo aspettato nessuno: si è diffuso senza chiedere permesso e se ne trovano tracce ovunque. Per fortuna anche nelle pagine colte di chi da anni compone senza sensi di colpa se, oltre alle quinte vuote, cade nella vergogna della iterazione. Ma per quanti anni le musiche nel nostro tempo hanno armeggiato con i motori bolsi di nevrotici post-serialisti con stivali, occhialoni e calottina? C’era ancora da volare sopra Vienna e sopra Darmstadt con nuovi bollettini di musica, dicevano. Chiavi inglesi, anzi tedesche, affondavan­o tra ingranaggi troppo contorti per non entrare in controfase al primo volteggio sulle teste del pubblico naso-in-su. I meccanici si alzavano dalla carlinga scuotendo la testa sporca di grasso. Inascoltat­i. Così il pubblico abbassava gli occhi e andava via.

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