Quartetti progressisti
Al contrario che in Germania, nel Belpaese il sofisticato genere cameristico prolifera nell’Ottocento come bandiera d’innovazione. Una mania che suscita l’ironia di Verdi
“Nulla di strano che la musica da camera sia stata sempre il mezzo preferito per l’audacia tecnica, in quanto riguarda l’impiego dei mezzi musicali”: l’affermazione di Hindemith trova un suggello emblematico nel Quartetto, il genere musicale che trova una significativa evidenza anche nella storia musicale del nostro Ottocento. “Società del Quartetto” si intitolano le varie iniziative fiorite a ridosso dell’unità d’Italia volte a diffondere un repertorio cameristico sconosciuto o pochissimo praticato quale la letteratura quartettistica della grande tradizione austro-tedesca. Prima di esse quella fondata a Firenze nel 1861 dall’editore Guidi e dal musicologo Abramo Basevi (che dedicò un’interessante analisi ai Quartetti op. 18 di Beethoven) seguita ben presto da altre città tra cui Lucca, Napoli, Milano e molte altre ancora. Iniziative che hanno trovato un riscontro significativo sia nella cerchia degli appassionati sia da parte di compositori, stimolati a esplorare un terreno che era stato lasciato in ombra dalla preminenza del teatro d’opera nella cultura e nel costume. In un eccellente studio Ennio Speranza (Una pianta fuori di clima, Edt, 2013) ha analizzato con grande scrupolo questo processo di appropriazione del Quartetto osservando con ampiezza di respiro il quadro più generale, spesso schematizzato nella scontata contrapposizione fra il nostro predominio del melodramma e la tradizione sinfonico-cameristica romantica, da cui una certa enfatizzazione della cosiddetta “rinascita strumentale italiana”, vista da alcuni come orgoglioso riscatto, da altri come semplice cambiamento d’abiti presi in prestito da ben altre boutiques. Fenomeno ben più complesso, in realtà, che sconta situazioni storiche, di costume, condizioni economiche ed altro, diverse da quelle delle altre nazioni europee; il Quartetto, con la sua esemplarità, si pone al centro di tale trasformazione come pietra di paragone. “Una pianta fuori di clima” giudicherà Verdi, il quale peraltro un Quartetto lo scrisse, ma quasi per svago, in una pausa imposta durante le prove di un’opera a Napoli, nella convinzione che, pur riconoscendo il merito delle varie Società del Quartetto la strada giusta fosse quella espressa in una nota lettera all’amico Arrivabene: “Ma se invece noi in Italia facessimo un Quartetto di voci per eseguire Palestrina, i suoi contemporanei, Marcello ecc. ecc. non sarebbe questa ARTE GRANDE?”.
Senza scomodare lo slancio nazionalistico di Torrefranca nella pretesa matrice italiana del Quartetto va detto che il percorso italiano di questo genere non fu mai interrotto, movendo da testimonianze di alto pregio quali quelle offerte sul finire del Settecento da Giardini, Brunetti, Cambini, Viotti per toccare punte di eccellenza con Boccherini e Cherubini e proseguire poi con Paganini, coi diciannove Quartetti di Donizetti o le geniali Sonate a quattro di Rossini. Strumento didattico da un lato, come incoraggiava Boito (“Il quartetto è l’eloquenza applicata alle note”), dall’altro esposto alle tentazioni di un virtuosismo salottiero, il Quartetto ricevette nuove linfe dall’azione delle varie “Società”, attraverso il confronto coi “grandi”, Beethoven in primis , seguito da Mendelssohn, da Schumann, poi da Brahms, linfe che operarono nella creatività di musicisti come Bazzini e Sgambati, non senza sfiorare lo stesso Verdi, quartettista “per svago”- “l’adesione seriosa ma non certo impersonale ai brulicanti climi fugati della cameristica di Beethoven o Mendelssohn” (Martinotti) nello Scherzofuga: il Verdi che, schernendosi con Ricordi, ammetteva che “l’interno non vale l’esterno. E lo valesse anche, è convenuto che noi italiani non dobbiamo ammirare questo genere di composizione se non porta un nome tedesco. Sempre l’istessi!”.